Il regista insieme a Gianfelice Imparato hanno estrapolato dal libro omonimo di Giuseppe Marotta sei episodi. C’è la pizzaiola infedele che ha lasciato l’anello della madre del marito nel letto dell’amante e racconta al marito di averlo fortunosamente perduto nell’impasto, e insieme, allora, visitano i clienti in una ricerca vana e grottesca. C’è la ragazza di vita che sposa un riccone e si illude di diventare signora, salvo scoprire poi che egli si è sposato per sfogare un morboso desiderio di espiazione, in quanto si sentiva tremendamente in colpa per la morte di una ragazza che lo aveva amato senza esserne corrisposta. C’è una povera famiglia succube delle prepotenze di un ex compagno di scuola del capofamiglia che vive presso di loro come un parassita finché questi non verrà allontanato per l’esasperazione. C’è il giocatore incallito e rovinato economicamente, ridotto a giocare a scopa con un ragazzino. C’è un vecchio professore che “vende saggezza” e consiglia a due ragazzi offesi da un guappo il modo più efficace di vendicarsi: macché agguati e coltelli, niente è più devastante di un sonoro pernacchio. Inoltre una coda di gente svagata che annusando come i cani scampoli di vita, si imbatte in situazioni paradossali e grottesche per caso trovate nel loro cammino, cercandovi la fortuna e i numeri da giocare al lotto.
Pugliese mischia questi episodi, ne lascia in sospeso uno per far partire l’altro, ferma quest’ultimo per far riprendere il primo, a volte sovrapponendoli in un gioco ad incastro quasi a voler significare che da qualunque parte la si prenda e la si guardi, Napoli e la sua gente raccontano la medesima cosa. Le stesse note di regia dicono che L’ORO DI NAPOLI rappresenta “la pazienza, la possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta, una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza” che accomuna tutto il popolo napoletano. Le storie dolenti o comiche, tragiche o paradossali ivi raccontate hanno tutte la stessa matrice, lo stesso humus e l’intento, peraltro riuscito, è che vengano colte nella loro unitarietà di fondo. Lo spettatore non assiste, ma è come se venisse risucchiato dentro un microcosmo, rappresentato da uno qualsiasi dei palazzoni che pullulano nel centro storico della città. E, come per magia, questo palazzone si disvela, “noi ne scopriamo gli interni e negli interni gli episodi e, negli episodi i personaggi che, a prescindere dagli stessi episodi, interloquiscono tra di loro nell’androne, nelle scale, per la strada”…dando vita ad una corale rappresentazione teatrale.
Sì, teatrale; ed è proprio il “teatralismo” l’altro elemento fortemente connaturato nell’indole napoletana e che viene sottolineato in questo allestimento in particolare dall’impianto scenico di Andrea Taddei. Telette e velarini dai colori pastello sono evocativi di un teatro antico, artigianale e di strada, di cui Napoli è sempre stata l’emblema; essi calano dall’alto e poi tornano su per creare o cancellare i vari ambienti in cui prendono vita i vari episodi di vita quotidiana. Si accende una luce di una finestra di un palazzone, poi si spegne e se ne accende un’altra, cala una finestra gigante che un gioco di luci sapiente oscura per illuminare l’inquilino che si trova all’interno, perché poi questi venga oscurato e la luce ritorni sulla finestra.
Un ultimo ma non meno importante merito di questo allestimento è il tono lieve e armonico con cui gli episodi tratti dal libro di Marotta sono stati tradotti e adattati, la stessa leggerezza e lo stesso brio con cui sono raccontati nel libro. Più che il dato triste e melanconico, emerge il tono comico, allegro per delineare un popolo amabilmente contradditorio, una terra che mantiene intatta la sua aura magica, fiabesca che paradossalmente convive con l’anima furbesca ed ingannatrice. Ma forse è proprio il paradosso la cifra della bellezza che da sempre contraddistingue questa città.
Una città devastata dalla guerra ma ancora piena di umanità. È questo il retrogusto che ci lascia questo spettacolo interpretato da Luisa Ranieri, Gianfelice Imparato, che, insieme agli altri, si dimostrano degni eredi della migliore tradizione attoriale napoletana. Se vogliamo trovare un neo, è proprio un vero peccato che al pubblico non avvezzo alla “stretta” parlata napoletana sfuggano molte battute e pertanto non sempre il senso venga colto pienamente. Una maggiore “italianizzazione” avrebbe forse reso meno partenopeo l’effetto complessivo ma avrebbe consentito una maggiore comprensione.