Non conosciamo il pensiero di Pasolini sull’eutanasia; troppo estraneo il tema al dibattito pubblico dei primi anni ’70, quando ragionare laicamente di aborto o di omosessualità era già spregiudicato ai limiti dell’eresia. Sappiamo invece della sua articolata resistenza ad una legalizzazione dell’aborto che rimanesse disgiunta da una riflessione totale sulla libertà dei rapporti umani e sul legame ideologico fra sessualità e procreazione, ciò che trasforma il coito in “obbligo sociale”. Fu la sua una resistenza pura e aconfessionale, sostenuta da un’inflessibile analisi antropologica della società del tempo; che non espresse – come a volte si lascia superficialmente intendere – una mansueta adesione alla credenza religiosa, né al canone della precettistica ecclesiale; impossibile immaginare l’obbedienza in un uomo consigliato soltanto da una prometeica libertà d’intelletto, il cui autorevole impianto concettuale non è mai riducibile alla banalità della norma. Con intelligenza profetica Pasolini avvertì che l’abisso imboccato a propria insaputa dall’uomo occidentale era quello del conformismo amorale, con l’orizzonte della felicità costretto entro l’universo dei consumi; e che un’umanità dai desideri circoscritti e dalla vita prevedibile si può allineare facilmente – per quanto secolarizzata – ad un paradigma etico controllato.
La compagnia Macellerie Pasolini è formata da artisti di diversa provenienza, raccolti intorno all’eredità del grande intellettuale bolognese per tradurre al presente il rigore della sua ermeneutica indipendente e i semi della sua ricerca estetica. Nel breve lavoro Love car il duplice tema dell’eutanasia e della sopravvivenza clinicamente assistita è affrontato per rifrazione – come si addice ad un’opera poetica – dal bordo opaco della materia: sulla scena una felicità semplice ed inattesa precede una fine imprevedibile, puro complemento biologico della pienezza del vivere. È soltanto un frammento ostinato di citazione dalla lettera-testamento di Piergiorgio Welby – che evoca un dibattito polifonico e problematico – ad insinuare, in un contesto di elementare quotidianità, il tema dell’intervento umano che si oppone illusoriamente alla consunzione irrevocabile del corpo, l’applicazione di una pietas contraffatta dall’ideologia che si sforza di trattenere a qualsiasi costo la vita in un organismo che non è più in grado di accoglierla.
Il conflitto intellettuale si accende intorno alla parola “naturale”, che Benedetto XVI utilizzò per disapprovare l’eutanasia: ad essa oppose “la dignità della vita” fino appunto al suo “termine naturale”. «Ma che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente-rimandata?» ripete metallicamente un computer con le parole di Welby, mentre sulla scena muta una coppia di mezza età riconosce l’incanto dell’esistenza nella gioia sensuale, corporea, relazionale; ed è ignara – com’è umano – della morte che incombe. La drammaturgia delinea un atteggiamento filosofico radicale: se la felicità è ciò che dà senso alla vita – proprio quello che un’altra voce nega, in un altro frammento in sottofondo: «chi ti ha detto che si vive per essere felici?» domanda retoricamente un sacerdote al suo fedele – allora l’ostinazione alla proroga biologica dell’esistenza di una creatura infelice non significa allo stesso modo vita; e l’accanimento alla perpetuazione è perciò disumano, immorale, insensato.
Cosa c’entra Pasolini con questa meditazione? Sul piano del posizionamento ideologico naturalmente poco o nulla, per le ragioni esposte in apertura; lo sa bene Ennio Ruffolo, autore esigente di questa scrittura scenica, che evita con attenzione anche la semplice interferenza della riflessione contemporanea coi temi “forti” del pensiero pasoliniano; ciò che alluderebbe ad un’attribuzione di idee francamente anacronistica ed arbitraria. L’ombra di Pasolini si avverte però nel dichiarare la felicità dell’uomo come principio primo della scelta morale, prevalente all’idea di vita stessa; misura perciò soggettiva ed immanente, opposta ad una nozione, quella di vita, che proprio perché universalmente “sacra” rischia un continuo assorbimento nei sistemi della metafisica. «Non è per la felicità che si fa la rivoluzione?» si domandava Pasolini in uno degli Scritti corsari, opponendo la gioiosa levità degli umili all’angoscioso decoro borghese; e in Love car
Due parole per concludere sulla messa in scena. Lontana ovviamente dalla formalità del palcoscenico, la rappresentazione si svolge in un’automobile collocata in una piazza, con gli spettatori seduti intorno; mentre i due suadenti interpreti, gli attori-non attori Cristina Matta e Romano Treré, affidano l’esecuzione, del tutto priva di testo recitato, alla compiutezza dell’espressione corporea. Anche in questa scelta di sottrazione, di rinuncia al codice stilizzato, si avverte una certa continuità estetica con l’ultima opera cinematografica di Pasolini – si pensi alla Trilogia della vita – in cui il linguaggio si mantiene ad una necessaria distanza “politica” dall’apparato dei codici estetici dominanti.