Il Teatro di San Carlo ripropone l’allestimento del capolavoro donizettiano firmato da Gianni Amelio nel 2012. Il motivo di maggiore interesse dell’appuntamento è il debutto nel ruolo della protagonista di Maria Grazia Schiavo, che prosegue con successo la sua personale esplorazione della vocalità ottocentesca dopo le tante prove nel repertorio barocco.
Una regia rinunciataria
La regia di Amelio, ripresa in questa occasione da Michele Sorrentino Mangini, è tanto discreta da diventare reticente ed elusiva. A riconsiderarla a cinque anni di distanza dal debutto, essa appare ancora più debole e finisce per conferire un carattere involontariamente oratoriale allo spettacolo. La staticità regna incontrastata e, se dona una certa solennità ad alcune scene d’insieme, consegna gli interpreti a una gestualità generica e piatta. Le idee di dettaglio, d’altra parte, non bastano a conferire una cifra caratteristica alla messinscena. Interessante risulta la scelta di non sottolineare il momento della follia per mezzo del consueto abito bianco insanguinato e di trasformare Lucia in una vedova già vestita a lutto. Meno riuscita sembra invece l’idea di collocare Enrico nel fondo della scena all’apertura dell’atto conclusivo, quasi fosse uno spettro che incombe sul destino di Edgardo. Alla mancanza d’azione fanno da pendant le scene monumentali e convenzionali di Nicola Rubertelli, dominate da un’unica tinta tetramente gotica che avvolge e quasi spegne i colori degli eleganti abiti di Maurizio Millenotti.
Virtuosismo ed espressione
Il cast vocale è complessivamente di buon livello. Un plauso speciale merita Maria Grazia Schiavo, capace di delineare in modo convincente gli aspetti allucinati di Lucia non soltanto nella celeberrima scena della follia, ma anche nelle apparizioni precedenti, percorse da inquietudini palpabili, da esitazioni ben calibrate, da sommessi tremori pronti a trasformarsi in accessi di terrore. All’appropriatezza scenica si accompagna l’eccellenza della voce. La Schiavo canta con generosità, non si risparmia, svetta negli insiemi con coro, vola nelle pagine solistiche, abbellisce con eleganza, dosa con sapienza i volumi e i colori. Il suo virtuosismo giunge fino all’astrazione ma rifugge dall’algido calligrafismo per trovare pienezza di senso drammatico. La affiancano Claudio Sgura, che delinea efficacemente la spavalda pervicacia di Enrico; Alessandro Scotto di Luzio, che dona spessore e risalto a Edgardo; Riccardo Zanellato, autorevole nei panni di Raimondo Bidenbend; e Francesco Pittari, puntuale e preciso Normanno.
La direzione di Stefano Ranzani è tanto energica da diventare a tratti precipitosa; buona la sua intesa con i cantanti, un po’ più faticosa quella con l’orchestra e il coro. Il pubblico apprezza e applaude a scena aperta.