Allestimento semplice ma efficace quello di Lucia di Lammermoor pensato nel 2009 da Damiano Michieletto per il palcoscenico zurighese e che giunge ora, per la prima volta in Italia, al Regio di Torino; un allestimento che insiste sul dramma della incomunicabilità e sulla sofferenza che l'oppressione esercitata dal mondo maschile su quello femminile ingenera nel mondo e nella storia. La scena di Paolo Fantin è spoglia, l'atmosfera cupa, livida; Lucia è spesso accompagnata nei suoi gesti da un fantasma che diviene quasi un suo alter ego e che finisce per concretizzare i suoi incubi. Unico elemento di rilievo una torre di vetro e metallo, inclinata, in rovina, simbolo della decadenza di un casato illustre, ma anche prigione di sentimenti, illuminata al proprio interno da gelide luci al neon; una torre da cui disperata Lucia si getterà in mezzo alla folla per porre fine alla sua esistenza. Pochi gli arredi, tutti simbolici: un secchio in riferimento alla sorgente, due tavoli e due poltrone a ricordare i festeggiamenti per il matrimonio, una tomba scavata da due becchini e una bara bianca sul finale, incontrovertibili segnali di morte. A completare il tutto i bei costumi di Carla Teti che si rifanno a una indefinita epoca del secolo scorso con qualche richiamo, per quanto concerne i personaggi maschili, a certe divise militari della seconda guerra mondiale.
Diana Damrau non interpreta Lucia ma incarna Lucia, in una identificazione col personaggio che in alcuni momenti diventa pressoché totale; la scena della pazzia rasenta il sublime: la cura per il gesto è magistrale, tutta indirizzata, in funzione quasi espressionista, verso una rappresentazione realistica della sintomatologia della follia; la parola risulta scarnificata, scabra, l'emissione perfettamente controllata, il suono, in completa sintonia con quello della glassarmonica, quasi straniante, alienante, permeato dall'angoscia che opprime la protagonista. È vero, la Damrau forse non è una belcantista pura, ma una interpretazione a questi livelli fa scordare simili categorizzazioni e fa rimanere muti di fronte alla titanica grandezza di un'artista. Bravissimo Pietro Pretti nel tratteggiare un Edgardo fiero e passionale condizionato però dalle vicende che lo trasformano in un perdente: la voce è sonora e fresca nel timbro, l'intonazione ineccepibile e sicura, il canto nei momenti di maggior liricità si spiega libero e suadente. Gabriele Viviani è un Enrico severo che ha atteggiamenti fortemente coercitivi nei confronti della sorella: l'emissione è solida e possente, il timbro piacevolmente brunito, l'estensione notevole, il cipiglio altero. Nei ruoli di contorno Nicolas Testé è un Bidebent dalla voce calda e ricca di armonici, Daniela Valdenassi una più che corretta Alisa, Francesco Marsiglia un Arturo dal timbro chiaro ma possente, Luca Casalin un Normanno vocalmente un po' debole ma corretto.
Direzione passionale e trascinante per un Gianandrea Noseda sempre attento al rapporto fra buca e palcoscenico; evidente la ricerca di nitidezza ed espressività di quel suono che finirà poi per farsi quasi metafisico nella scena della pazzia, a perfetto coronamento di una esecuzione ardimentosa del tutto coerente con le scelte registiche e vocali.
Recita sold out; il pubblico entusiasta si è profuso in molti applausi a scena aperta e in una vera e propria standing ovation finale.