Lirica
LULU

La Lulu di Berg/Kloke arriva in Italia

La Lulu di Berg/Kloke arriva in Italia

Tre sono le grandi opere incompiute del Novecento, guarda caso tutte varate negli Anni Venti-Trenta del secolo passato: Moses und Aron, Turandot, Lulu. Tre opere fondamentali per il teatro musicale del cosidetto Secolo Breve, sebbene non portate poi a compimento dai rispettivi autori. Schönberg non iniziò mai di fatto a musicare il terzo atto di Moses, per vari motivi; e sollecitato da più parti a concludere un lavoro così complesso ed impegnativo, fece sempre orecchie da mercante giungendo al punto di suggerire, anni dopo, di ignorarlo ed eseguire solo i due atti precedenti; oppure, in alternativa, di farne semplicemente recitare il testo. Puccini, dopo aver descritto la morte di Liù, entrò in una profonda crisi compositiva; a concludere la sua Turandot provvide Alfano, sulla base degli schizzi abbozzati prima della morte. E, più vicino a noi, ci si cimentò anche Berio, ma senza riuscire sinora a scalzare l'illustre precedente editoriale. Quanto a Lulu, completata da Berg nell'orchestrazione solamente sino alle primissime battute del terzo atto, anche qui a causa della sua prematura scomparsa, ci si rassegnò per molto tempo a rappresentarne solo i due primi atti, e ciò a causa del netto ed ostinato diniego della vedova, dopo gli infruttuosi abboccamenti avuti con Schönberg, Zemlinsky e Webern, di affidare ad altri i preziosi appunti del marito, al fine di dar forma rappresentabile all'ultimo atto. In questa veste ridotta, che circolò per vari decenni, nel settembre 1949 ebbe luogo la prima italiana sul palcoscenico del Teatro La Fenice.
La questione del completamento di Lulu rimase dunque a lungo sospesa: fu solo dopo la morte della moglie di Berg, avvenuta nel 1976, che Friederich Cerha ebbe via libera per elaborare, sulla base delle abbondanti indicazioni contenute negli appunti da lui lasciati, una convincente partitura orchestrale del terzo atto; facilitato nell'impresa anche dalla circostanza che questo epilogo, nelle previsioni di Berg, vede tutta una serie di corrispondenze, e di ritorni tematici e timbrici del prologo e dei primi due atti. Fu così che nel 1979 Lulu divenne valutabile finalmente nella sua completezza concettuale a Parigi e Milano, sotto l'egida di Pierre Boulez e di Patrice Chéreau, dando modo di constatare che la ricostruzione effettuata da Cerha, accolta subito dal favore generale ed adottata poi ovunque, costituiva senza dubbio un'opzione persuasiva e soddisfacente. Per questo motivo (salvo mere necessità editoriali, honni soit qui mal y pense) non credo proprio si sentisse la necessità di rimettere più mano alla questione; nondimeno, vi si è comunque voluto cimentare anche Eberhard Kloke, operando su commissione dei teatri di Copenaghen e di Oslo dove la sua ulteriore rielaborazione, che rimette in discussione ed azzera tutto il precedente lavoro di Cerha, è andata in scena per la prima volta nel 2008. Dalle sue mani esce una Lulu per molti versi minimalista, dove lo spartito per piano del terzo atto diviene la base per una strumentazione ridotta e trasparente, con scelte timbriche – vedi l'aggiunta di una fisarmonica – che privilegiano linee musicali aliene e sin troppo essenziali, e che adotta talora sensibili scostamenti dal prototipo costituito dai primi due atti. A mio vedere, il risultato complessivo non è sempre del tutto convincente: aleggia infatti su questo intervento una fredda intellettualità, e quasi un volersi distanziare dal dettato originale; ma soprattutto perché è ben avvertibile - e fastidiosa, drammaturgicamente parlando – la voluta cesura nei confronti dei primi tre ben più intensi ed audaci momenti interamente di mano berghiana. Detto ciò, continuerei quindi a preferire la versione Cerha.
A parte tali considerazioni personali, condivisibili o meno, un plauso sincero va alla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento, ed al suo direttore artistico Matthias Lošek, che per la stagione d'opera  2015/2016 e sotto l'insegna “Oper.A 20.21” non solo hanno proposto un titolo notoriamente “difficile”- pochi teatri mostrano in verità tanto coraggio - ma in più hanno deciso di presentarlo nella nuova visione di Kloke, sottoponendola per primi al giudizio del pubblico italiano. Quasi inevitabile quindi adottare l'intrigante versione scenica che la Welsh National Opera aveva ottenuto qualche anno fa dal geniale David Pountney: una regia vivace e dai tratti istrionici, come è solito proporre l'artista di Oxford; magari sin troppo grottesca e ricca di riferimenti simbolici - al punto da sviare talvolta l'attenzione dello spettatore - ma comunque solida, intensa, sempre espressiva; perfettamente in grado cioè di condensare e raccontare senza sbandamenti l'ascesa e la rovina dell'affascinante eroina di Wedekind, al di là d'ogni possibile obiezione. Notevole è poi l'effetto sullo spettatore della scenografia impostata da Johan Engels, una grande gabbia metallica di pretto sapore circense con al centro una torre servita da una scala elicoidale, dove i personaggi si aggirano come prigionieri del loro destino; e non caso, i cadaveri dei tre mariti di Lulu vi appaiono appesi in alto, macabri trofei delle sue conquiste erotiche. Un erotismo dai connotati decisamente triviali emerge poi nell'opulenza rosea delle smisurate e scomposte membra femminili che riempono la scena del secondo atto, sulle quale Lulu si adagia alla fine in sensuale nudità; quella stessa nudità che assume una tragica valenza quando la scorgiamo imbrattata tutta di sangue, attraverso una vetrata circolare, violata dal coltello di Jack the Ripper. Marie-Jeanne Lecca ha ideato grandi maschere da animali e rutilanti costumi da cabaret berlinese Anni Venti, coloratissimi e sparsi di pailettes; le affilate luci di Mark Jonathan, sempre sapientemente dosate, accompagnavano i personaggi verso il loro inesorabile dissolvimento fisico.
Sotto la tesa ed attenta direzione di Anthony Negus, ben sostenuta dall'efficienza dell'Orchestra Haydn, agiva una compagnia di canto in gran parte già affiatatasi nelle precedenti recite alla WNO, e capace quindi di consegnare uno spettacolo appassionante. Il soprano svedese Marie Arnet ha conferito alla sua Lulu un'irresistibile fisicità, che ben ne sottolineava il carattere da perversa seduttrice; dal punto di vista vocale però s'avvertiva una qualche debolezza sonora, accentuata alla fine dal faticosissimo impegno dovendo per di più confrontarsi – questa l'unico appunto al direttore Negus – con un'orchestra talora soverchiante. Il mezzosoprano viennese Natacha Petrinsky ha giocato abilmente le sue carte rendendo al meglio l'ambigua Contessa Geschwitz; il baritono inglese Paul Carrey Jones  ha saputo definire a perfezione, vocalmente e scenicamente, i due personaggi in consegna (Dr. Schön, Jack the Ripper); ineccepibili del pari il tenore olandese Johnny Van Hal nel rendere l'equivoco Alwa, e il tenore inglese Mark Le Brocq nell'indossare i panni del Pittore e del Negro. Molto bene s'è comportato anche tutto il resto del cast: Bernd Hoffmann (il Domatore e Schigolch), Jurgita Adamonyte (Guardarobiera, Studente, Grom), Duccio Dal Monte (Direttore di teatro, Banchiere), Alan Oke (Principe, Domestico, Marchese), Steven Scheschareg (Atleta), Roland Selva (Primario), Keith Harris (Giornalista), Johannes Held (Domestico), Rebecca Afowny-Jones (Arredatrice), Anna Lucia Nardi (Madre), Mary-Jean O'Doherty (il Quindicenne).
Grandissimo successo di pubblico, in una sala che a dispetto della ridotta popolarità del titolo (o forse proprio per quello) appariva gremita in ogni settore.

(Foto di Benedetta Pitscheider)

Visto il 15-01-2016
al Comunale (Sala Grande) di Bolzano (BZ)