Premio Pulitzer ’57, il capolavoro postumo di Eugene O’Neill rappresenta un punto fermo nella drammaturgia novecentesca, un impietoso disvelamento dei falsi miti occidentali in grado di parlare con urgenza al presente; e, d’altra parte, un «dramma d’un’antica pena…scritto con le lacrime e col sangue» secondo l’autore, come egli stesso ebbe ad annotare nella dedica alla moglie Carlotta in occasione del dodicesimo anniversario di matrimonio, il 22 luglio 1941. Di certo, il ricordo delle tragiche vicende biografiche evocate in Long day’s journey into night risultava per il drammaturgo statunitense talmente insostenibile, da spingere questi a differire la divulgazione dell’opera ben oltre la propria stessa morte.
In effetti, la carica emozionale dovuta al coinvolgimento personale di O’Neill conferisce alla pièce le sembianze di un micidiale scandaglio dell’anima, mentre l’inesorabile congegno avviato attraverso l’altercare demolitorio dei quattro protagonisti, nell’unità di tempo classica di una giornata e senza che molto di concreto avvenga sulla scena, precipita in macerie la banale routine quotidiana di una famiglia altoborghese del Connecticut, schiacciata dall’emergere della verità dei fatti. Un filone - quello della saga familiare “maledetta”- che il regista Arturo Cirillo ricalca molto opportunamente sui temi dell’attualità: il falso imperativo della felicità ad ogni costo e il ricorso alle dipendenze come rimedio alle frustrazioni connesse, lo stigma della malattia incurabile, gli inevitabili conflitti connaturati alla coesistenza in un ristretto nucleo familiare.
La lunga giornata di una famiglia “disfunzionale”
La luce del mattino mostra le prime incrinature del roseo quadretto familiare da “sogno americano”: così, fuori da qualsiasi edulcorato bon ton di maniera, apprendiamo che il piacente turgore della cinquantenne Mary (grande prova di Milvia Marigliano) è il postumo di un incerto tentativo di disintossicazione dalla morfina; il di lei marito James (ancora Cirillo, a scandire i tempi del quartetto), ex attore di discreta levatura, cerca di fare da capofamiglia, ma è osteggiato dalla moglie e disprezzato dai figli, infelici eredi - quest’ultimi- di cotanti genitori (nella valida resa di Rosario Lisma- James Jr. e Riccardo Buffonini- Edmund).
Il pesante clima di sfiducia reciproca, unito alle continue recriminazioni e al sospetto che i misfatti del passato - secondo i canoni dello spirito tragico- possano reiterarsi abbattendosi sulla discendenza- contribuisce all’avverarsi delle più nefaste profezie, come sintetizza Mary, autoassolvendosi rispetto all’ineluttabilità della sorte: «Non abbiamo colpa di quello che la vita ci fa…alla fine ci si ritrova diversi da come avremmo voluto essere, e si è perduta per sempre la nostra vera essenza».
Il mondo come rappresentazione e la lunga notte della coscienza
Pur considerando con indulgenza «il desiderio di perdono verso tutti e quattro i tormentati Tyrone» esplicitato dal drammaturgo nei confronti dei propri realistici personaggi, risulta impossibile trascurarne la dimensione di inveterati mentitori. La difficoltà sulla corretta interpretazione di quanto riferito, con l’aggravante della falsa coscienza che annebbia le menti (come la fitta coltre diffusa a vista sul palco), spinge l’azione scenica sul terreno dell’incertezza: «un’enorme celebrazione dell’immaginazione, dove i personaggi hanno continuamente un doppio binario di menzogna e verità» - chiosano le note di regia, rimarcando il gioco metateatrale esteso fin agli elementi scenografici.
Sulla base di un testo depurato - nella presente versione- da qualsiasi riferimento storico contingente e pertanto assurto alla dimensione di classico universale, il lavoro, pur non apportando radicali innovazioni, avvince grazie al valore interpretativo dell’intero cast: due ore filate che inchiodano l’attenzione, lasciando moralmente esausti, ma appagati.
Spettacolo: Lunga giornata verso la notte
Visto al Teatro Verga di Catania.