Il teatro dell'Opera di Roma torna ad antichi splendori con una inaugurazione degna di un teatro internazionale per la scelta del titolo, il richiamo mediatico, la folla assiepata in coda al botteghino e soprattutto uno spettacolo splendido coprodotto con il festival di Salisburgo.
Peter Stein, fedele al motto di “mettere in scena fatti e non interpretazioni”, offre una lettura classica e didascalica del capolavoro verdiano, anche se la ricerca di una oggettività assoluta finisce con il semplificare dramma e analisi psicologica di un’opera particolarmente visionaria e complessa. Particolare rilievo viene dato al ruolo della Lady; chiarificatrice la scena a due dopo il delitto: lui è solo e malinconico, impaurito, confuso, tremante, un debole manipolabile; lei è ambiziosa e folle, razionale, sicura, lucida, altera, fredda e calcolatrice, una dominatrice. Entrambi, in modi diversi, deliranti. Un delirio a due nel buio della ragione.
Stein rispetta l’ambientazione in Scozia alla fine del Medioevo, come ben suggeriscono i raffinati e curatissimi costumi tardo-medievali di Anna Maria Heinreich. La scena creata da Ferdinand Wögerbauer è vuota e buia: bene non avere ricreato quel luogo irripetibile che è la Felsenreitschule, tre ordini di gallerie scavate nella roccia che sono una presenza forte e imprescindibile, non traslabile. La scena è fissa; un telo nero sale e scende, consentendo di creare geometrie di buio e luce sul fondale. Si utilizzano pochi elementi che appaiono e scompaiono dal palcoscenico: una parete nera con una porta abbozza un interno del castello e mette in rilievo l’entrata della Lady e il progressivo scivolare nel delitto; una tavola luminosa che attraversa tutto il palcoscenico è la lunga passerella su cui la Lady intona il brindisi e davanti a cui appare come dal nulla Banco insanguinato; gli otto re sembrano sorgere da una ruota che gira dentro una botola; un pentolone sorge dal basso e consente le apparizioni.
Pur senza gli archi rocciosi della Felsenreitschule, risulta assai forte la scena del sonnambulismo, l'apparire della Lady nel buio col volto spettrale illuminato dalla sola candela che reca in mano camminando. Non c'è, rispetto a Salisburgo, lo sfilare delle masse: il corteo di reali, invitati e musicisti prima del convito o la moltitudine lacera dei perseguitati che sfila con dolorosa lentezza in “Patria oppressa”.
Come nella tragedia di Shakespeare, le streghe sono solo tre: grottesche creature bianche sovradimensionate in quanto interpretate da tre attori incappucciati con pelli posticce bianche e flaccide, seni di plastica svuotati e avvizziti che si agitano attorno a un gigantesco calderone infernale, mentre i coristi rivestiti di foglie ed illuminati da un sapiente gioco di luci ricreano la magia di un bosco notturno e incantato. Lo spettacolo infatti deve molto alle luci di Joachim Barth, splendide e fondamentali in uno spazio scenico vuoto e buio.
Il movimento scenico preciso e naturale è ciò che più si apprezza nello spettacolo di Stein: straordinario. Nella scena dell’uccisione di Banco i sicari immobili simulano tronchi di un bosco spettrale che, aprendo i mantelli di spalle al pubblico, si fa poi un bozzolo che “inghiotte” Banco portandolo via in dissolvenza con rapidità fulminea. Ottime anche le scene solitamente critiche: quelle di battaglia sono un esempio di perfetta sintonia con la situazione musicale e drammatica nella disposizione sul palco. Si apprezza, inoltre, la gestualità asciutta e tragica che traspare nella tensione delle mani o nella postura incurvata, come un rapace o una fiera pronta allo scatto, che caratterizza Macbeth e la Lady. In opposizione alla coppia infernale, il tenero amore fra Macduff e la moglie offre un inedito cameo di amor cortese. Forse un eccesso la vista dei cadaveri insanguinati di moglie e figli in didascalia alla “Paterna mano”.
L’opera è stata qui proposta in una forma ibrida che adotta il finale della prima versione del 1847, drammaticamente più forte per la morte di Macbeth in scena, ma segue per tutto il resto la seconda versione con l’integrale del ballo scritto per la versione parigina del 1865 in apertura del terzo atto. L'inizio del terzo atto è suonato a sipario chiuso. Il balletto degli spiriti, risolto senza danze ma con bambini vestiti di bianco che si tengono per mano e fanno un girotondo mentre Macbeth riverso a terra sogna, illumina sulla situazione psichicamente fragile del protagonista.
Tatiana Serjan è l'unica protagonista rimasta del cast di Salisburgo e si è confermata un’ottima Lady per intensità scenica e controllo vocale; la voce è tagliente e si adatta al ruolo, il canto è irreprensibile e le consente di dominare la tessitura impervia con acuti penetranti e un solido registro centrale; se la lettera non è pienamente risolta per limiti di dizione, convince pienamente nel brindisi e nella scena del sonnambulismo di forte impatto drammatico ed emotivo.
Dario Solari è un Macbeth dalla voce morbida, salda e sonora, ampia e ben emessa; il canto non ha esitazioni e rende un personaggio ben introspettato, giocato sulla fragilità, su un'emotività dominata dalla forte figura della moglie; un Macbeth solo e dubbioso, reso con un'ampia gamma di colori e sfumature.
Riccardo Zanellato è un Banco corretto ma non particolarmente incisivo. Anche Antonio Poli era a Salisburgo, ma nel ruolo di Malcom; qui interpreta Macduff: la voce è estesa e molto bella per timbro, senza sforzi nell'acuto; il tenore è particolarmente toccante nella “Paterna mano”. Bene il Malcolm di Antonio Corianò. Anna Malavasi è una Dama sensibile, accanto al medico perfetto di Gianluca Buratto. Completano il cast Luca Dall'Amico (domestico di Lady Macbeth e prima apparizione), Alessandro Spina (sicario), Francesco Luccioni (araldo), Claudio Prosperini e Marta Pacifici (seconda e terza apparizione). Da menzionare assolutamente per bravura i tre mimi interpreti delle streghe: Robert Christott, Michael Schefts e Volker Wahl.
Riccardo Muti è stato nominato in agosto direttore onorario a vita dell'Opera di Roma e qui dirige con molto rispetto e perfetto dominio di tempi e dinamiche una delle opere da lui più frequentate. Riesce ad ottenere dall'orchestra del teatro un suono rotondo che si piega in modo duttile agli scarti più drammatici, rendendo palpabile il vigore di un primo Verdi senza mai perdere in morbidezza e cantabilità. Un’esecuzione un po’ levigata per un’opera così drammatica e “imperfetta”, ma di assoluta bellezza, in particolare nelle ispirate pagine sinfoniche, nell’introspettivo coro “Patria oppressa” dalla tinta malinconica e ovattata esaltata dalle allargature, nella mirabile dolcezza d’accompagnamento a “Pietà, rispetto, amore, conforto ai dì cadenti” in cui si ravvisa una straordinaria coesione voce-orchestra. I pianissimi sono udibili e trasparenti, i forti sono sempre morbidi e vellutati.
Ottimo il coro dell'Opera di Roma, preparato da Roberto Gabbiani e chiamato a una prova attoriale notevole sia in “Patria oppressa” che in tutti i momenti in cui i coristi sono vestiti di verzure e si muovono come fossero mimi.
Teatro esaurito, pubblico attentissimo, infiniti applausi a scena aperta e nel finale. Nel programma di sala anche la filmografia di Macbeth a completare un volume particolarmente curato e prezioso.