Le arti performative sono quel gruppo di arti che vivono solo nel momento in cui vengono prodotte e che nell’istante successivo sono presenti solo nella memoria di chi vi ha preso parte, come esecutore o spettatore. Queste arti, di cui il teatro d’opera è forse quella che le riassume tutte, hanno due vie per sopravvivere alla loro natura effimera: diventare museo di se stesse o attualizzarsi nella tradizione. La via che il Macbeth di Verdi, andato in scena al Teatro Alighieri di Ravenna, vuole percorrere pare assai convincente. Lungi dal crogiolarsi in un autocompiacimento privo di crescita, la ricerca registica dell’allestimento ha offerto un intrattenimento artistico di elevata caratura. Su tutto svetta l’idea della proiezione luminosa non come mero suppellettile scenico in grado evocare le più svariate ambientazioni ma una vera e propria presenza, a tratti terribile e demoniaca, capace di condurre con forza il pubblico negli oscuri meandri della mente dei protagonisti della tragedia shakespeariana. Felice dunque la regia, firmata da Cristina Mazzavillani Muti, fedele all’ambientazione scozzese, ma pur avanguardista nell’uso del palco come schermo, quasi a creare una liaison tra teatro e cinema. Di particolare rilievo, inoltre, la scelta degli abiti, su tutti quelli di Lady Macbeth: in ogni atto il colore rivelava una piega dell’anima, così come la lunghezza dello strascico sembrava dare la misura della follia della donna.
Il vero punto dell’opera lirica sin dalla sua invenzione seicentesca è, però, il canto. Il cast, composto da giovani già affermati, ha sicuramente la sua punta di diamante nella sudcoreana Vittoria Ji Won Yeo: la sua Lady Macbeth esce dalla luce che la vuole perfida più del marito e invece assume la voce della bramosia del potere che si cela nel cuore di Macbeth; la precisione e la pulizia tecnica del giovane soprano, allieva di Raina Kabaivanska, ammaliano per la terribile grazia che dispensano. Di spessore l’interpretazione del baritono Matias Tosi nel ruolo di Macbeth, che rende giustizia al sanguinario re preda delle proprie ombre, nonostante la sua performance sia costellata da diverse défaillances tecniche che non inficiano, però, la sua efficacia scenica. Significativa l’interpretazione di Daniel Giulianini nei panni di Banco, anche se nell’aria Come dal ciel precipita, prodromo della morte violenta del personaggio, ci si può aspettare un’interpretazione meno algida e distaccata. Il ruolo di Macduff, affidato alle forse troppo amorevoli cure di Alessandro Scotto di Luzio, è evanescente: il giovane tenore è frequentemente schiacciato da un’orchestra a tratti assai docile nei suoi confronti; il recitativo prima della celebre aria Ah, la paterna mano allontana tutta l’atmosfera scozzese ed evoca alla mente gli amorosi sospiri di un Almaviva rossiniano che, per quanto graziosi, appaiono fuori luogo. Degna di nota la grande performance del Coro del Teatro Municipale di Piacenza, sottoposto agli straordinari dalla grande importanza rivestita nell’opera verdiana, preparato da Corrado Casati. In questo allestimento la presenza della compagnia di ballo DanzActori ha reso possibili tutti i giochi d’ombra che la regia proponeva, valorizzandone puntualmente i significati testuali senza apparire mai fuori luogo.
La direzione di Nicola Paszkowski è essenziale, pulita, merce rara di questi tempi, nei quali i giovani direttori, pur di distinguersi, concentrano tutto su se stessi, dimenticando che il mestiere di “tagliar l’aria” non produce direttamente suono, ma ne conduce l’andamento di quello altrui. Il direttore fiorentino non si nota tranne nei momenti in cui è davvero risolutivo e conduce magistralmente l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini in serata di grazia. Questa compagine non è più una sorpresa, tuttavia è sempre meraviglioso pensare che queste vette musicali si possano ottenere con una così folta schiera di giovani.
L’opera lirica per sopravvivere a se stessa ha bisogno di queste serate: evoluzioni del linguaggio teatrale che nell’epoca dell’immagine avvicinano lo spettatore di un’arte antica a un vissuto sempre più lontano dall’umanità, nella quale le opere nacquero. La sintesi suprema di questo processo si può definire come attualizzazione della tradizione.