Lirica
MACBETH

Luci ed ombre nel Macbeth Abbado/Wilson a Bologna

Luci ed ombre nel Macbeth Abbado/Wilson a Bologna

A distanza di un anno e mezzo dalla sua presentazione, e con in locandina quasi gli stessi nomi, ha fatto ritorno sulle scene bolognesi il discusso Macbeth del tandem Roberto Abbado/Bob Wilson. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, ma non è proprio così: perché il direttore milanese pare aver profondamente ripensato la precedente lettura del lavoro verdiano, che allora era proposta con un che di algido ed astratto, assecondando fedelmente la fredda e severa visione registica elaborata del regista texano. Per queste nuove recite ottobrine Abbado ha stavolta infatti proposto una visione della partitura verdiana del tutto opposta, e che definire esemplare sarebbe ancor troppo poco: senza ometterne la consueta profonda introspezione musicale , senz'altro più calda, più 'umana' che in precedenza, in un tripudio di preziosismi strumentali, di varietà di fraseggio, di contrasti, di effetti, immersi in un fluire musicale tumultuoso. Emerge così in pieno, dalla sua concertazione, in tutto e per tutto il dramma verdiano – più cupo, demoniaco e sanguigno dei versi di Shakespeare - nel quale ambienti, personaggi, passioni, sono legati da nodi inestricabili; ed ogni avvenimento si sussegue all'altro in una logica di casi inarrestabili, l'uno inevitabile conseguenza dell'altro. Siamo qui di fronte, credo, alla piena maturità artistica di un direttore di già grande statura: d'altro canto, direi che in poche altre occasioni abbiamo ascoltato l'Orchestra del Comunale suonare così precisa, così duttile  – morbidissimi gli archi, entusiasmanti fiati ed ottoni - così espressiva e ben coesa, pronta ad assecondare diligentemente ogni indicazione del suo direttore.
Quanto all'aspetto scenico, nulla invece varia. Si sa che 'Bob' Wilson ha un metodo registico personalissimo tutto impostato per sottrazione, con il quale depenna ogni orpello possibile. Il modello è ovviamente quello del teatro orientale - quello giapponese in particolare - nel quale tempo e spazio sono dilatati ed immateriali. Approccio che funziona solitamente benissimo, come in due raffinati allestimenti pucciniani visti in passato, una emozionante Madama Butterfly calata in un vuoto pressoché assoluto di cose, giocando quasi solo con luminosità sempre variabili; ed una Turandot di sconvolgente lirismo, altrettanto rarefatta ma nella quale ogni gesto appare carico di tenera poesia. Applicato a Macbeth appare però meno riuscito, a tratti persino stucchevole: poco convincenti il clima irrealistico ed onirico nel quale i personaggi agiscono con minimi gesti stilizzati, i volti pietrificati, mossi come marionette o come rigidi automi, l'assenza di una vera scenografia, sostituita da grandi e statiche immagini, i prodigi nel gioco delle luci virate quasi sempre verso l'oscurità, che tuttavia non sempre sono coerenti con quanto accade in scena. Un'intima estraneità, verrebbe da dire, una strana discrasia verso la complessa drammaturgia e le concitazione del testo, con la sensazione finale che questo suo rigoroso codice semantico mal si adatti al procedere turbinoso della tragedia shakespiriana, pur cogliendo felici intuizioni come quella di avvolgere le streghe in un misteriosa oscurità, accentuandone così il lato magico, o quella di spersonalizzare talora il coro con scure silohuettes in controluce.
Come già detto, stessi gli interpreti dell'edizione 2013, con l'eccezione di Amarilli Nizza che è subentrata a Jennifer Larmore: cominciamo di qui. Lady Macbeth nella prima versione dell'opera cantava un'invettiva di agguerrito virtuosismo (“Trionfai! Securi alfin”) che Verdi poi volle sostituire con la più introspettiva “La luce langue”,  momento cardine del 'nuovo' Macbeth . Ciò non toglie che Lady rimanga sì un ruolo da soprano drammatico – termine coniato dopo - ma pur sempre di vera razza belcantista: cosa che la Nizza, interprete di carattere verista, pur con l'indubbia e salda professionalità che le permette di costruire qui un personaggio scenicamente autorevole, non può essere che in parte. E questo, ahimé, mutila il lato puramente musicale del suo personaggio. Nel confronto il Macbeth di Dario Solari, pur non essendo del tutto ideale, si può dire che quasi giganteggi: la colonna di fiato solida, articolato il fraseggio e buono il legato, così come la varietà di colori che riesce ad ottenere, a dispetto della staticità cui viene costretto dalle scelte registiche.  E poi: nitido squillo ma poca finezza nel Macduff di Lorenzo Decaro, linea di canto morbida eppur possente al tempo stesso nel Banco di Riccardo Zanellato, nobiltà d'accento nel Malcom di Gabriele Mangione. Da lodare tutte le parti di fianco, principiando dall'ottimo Alessandro Svab nel ruolo del medico, e da quella di Marianna Vinci come Dama, per seguire con Michele Castagnaro (domestico), Sandro Pucci (sicario), Luca Visani (araldo). A posto le voci delle apparizioni; il Coro del Comunale, ben preparato da Andrea Faidutti, ha eseguito con precisione il suo compito, mostrando bel trasporto nella dolente trenodia di "Patria oppressa”. Ricordiamo che i geometrici costumi di questo Macbeth portano la firma di Jacques Raynaud; la regia di Wilson era ripresa per l'occasione da Gianni Marras.
(Foto Rocco Casaluci)

Visto il 17-10-2015
al Comunale - Sala Bibiena di Bologna (BO)