Finalmente una geisha che si suicida secondo il femminile rito del Jigai anziché seguire impropriamente il maschile Seppuku, ovvero Harakiri e finalmente, note di regia che hanno trovato concreta rispondenza sulle tavole del palcoscenico. Così esordiva il programma di sala: “Tutti siamo stati almeno una volta nella vita dei Pinkerton o delle Cio-Cio-San. Tutti abbiamo inflitto un abbandono o lo abbiamo subito”. Il regista Massimo Pezzutti possiede un raffinato animo pucciniano. La sua Madama Butterfly - ci sia scusata la definizione irriverente ma calzante - è un work in progress che, ad ogni nuovo allestimento, si arricchisce di incessante approfondimento drammaturgico. In questa co-produzione delle Fondazioni Teatro “Coccia” di Novara e Teatro “Donizetti” di Bergamo, predominante è stato il senso della perdita, della separazione, della solitudine. Nel corso di un intelligente incipit, Pezzutti ha suggerito la premonizione della tragedia, da intendersi nel significato etimologico latino di praemonere (ammonire prima), non già anticipazione onde nulla sottrarre al crescendo del pathos: la proiezione in una dimensione “altra”, del volto della figlia del Sol Levante, sui capelli della quale sono corse stille versate da una ciotola. Tema dell’acqua che i librettisti Illica e Giacosa identificano con il mare, soggetto attivo e protagonistico che dapprima porta, poi tiene in sospensione infine sottrae l’amore e la vita stessa. Acqua sgorgata ininterrottamente dalle rocce di proscenio, assurta per Pezzutti ad elemento simbolico del viaggio di rinascita e purificazione intrapreso da Cio-Cio-San; tradotto nel rito del battesimo cristiano, religione abbracciata dalla moglie-bambina quale atto preparatorio alle nozze con l’americano. L’immagine, con intuizione cinematografica, è rimasta impressa sullo shoji (eclatante prigione mentale con tanto di sbarre) fino al momento in cui Pinkerton ha fatto irrruzione nella casa a soffietto spalancando con brutalità le fragili pareti e squarciando così la chimera da esse supportata. Iter di dirompente drammaticità, del quale non solo l’acqua ma la Natura tutta si è resa partecipe in senso animistico o meglio, per dirla alla giapponese, si è incarnata in un essere divino: un Kami. I bianchi petali rubati alla fronda di ciliegio si sono posati impalpabili al suolo come pioggia odorosa di speranza, effimera e speciosa al pari della felicità, per poi precocemente avvizzire durante la notte di veglia e, all’alba, essere spazzati via dal vento della realtà e con loro, i sogni della nipponica creatura. Butterfly morirà con il sorriso sulle labbra, perché ella, secondo Pezzutti, non ha vissuto l’oggettività bensì uno stato onirico, frutto di tale compenetrazione fisica da avere assunto contorni tangibili nella straziante scena in cui la sventurata, preda di mendace delirio emotivo, ha creduto di abbracciare il luogotenente finalmente tornato da lei. Di elevatissima poesia estetica ed espressiva le luci, che il regista (tecnicamente coadiuvato da Jean Paul Carradori) ha pennellato a tinte sfumate, non univoche, a sottolineare anch’esse il sovrapporsi di sentimenti contrastanti, il confondersi di illusione e verità. Il cielo del prim’atto era sì limpido, ma di quella particolare gradazione di celeste foriera di tempesta. I colori accesi sono divenuti via via più cupi, sempre più ingannevoli nella gamma cromatica. Spettacolare e colta la chiusa, con un suggestivo controluce del bimbo il quale, ignaro e spensierato, ha fatto librare in alto un aquilone dalla sagoma stagliata nel cielo lattiginoso sul quale era impresso un grande Sole rosso sangue: una sconfinata bandiera giapponese, chiamata Nisshoki ma più conosciuta con il nome di Hinomanu, ovvero letteralmente “disco solare”, non a caso sinonimo del fuoco che genera il risveglio interiore, contornato dal bianco che rappresenta la purezza dell’antico Spirito. Tornando alle note di regia: “Solo con il suicidio Butterfly ritorna alla dimensione del vero”.
Notevole l’effetto surround ottenuto avendo collocato alle spalle del pubblico il cannone del porto, il coro dei marinai e il rumore delle ancore: ambientazioni dettate dallo spartito. Purtroppo Raffaella Angeletti ha delineato una Butterfly emotivamente fredda sia sotto il punto di vista scenico che vocale. Il lungo curriculum in questo ruolo è parso averle lasciato in eredità un approccio stereotipato, avulso dal presente contesto. Una voce dall’interessante timbrica scura, dalla quale si sarebbe gradita una maggiore proiezione; monotona nel fraseggio. Aggressiva, anziché espansiva nei passaggi lirici: più una spietata Lady Macbeth che una piccola Cio-Cio-San che ha trovato comunque il suo momento più alto nell’aria che precede il suicidio. Andeka Gorrotxategi, prestante Pinkerton di appropriata irruenza giovanile, pur musicalmente non ineccepibile, ha spiegato una voce ragguardevole per colore e potenza, buona soprattutto nella gamma acuta. Annunziata Vestri, è stata Suzuki di notevole spessore, acuita dalla giusta vocalità di naturale mezzosoprano e sempre perfettamente aderente al ruolo. Di consumata professionalità lo Sharpless di Marzio Giossi, attento al dettaglio del gesto. Di lodevole impegno la prestazione di Orfeo Zanetti nel ruolo di Goro. Buono il livello del comprimariato con una nota negativa allo Zio Bonzo di Angelo Lodetti, tanto efficace scenicamente quanto di opinabile intonazione oltre che di incollocabile registro vocale. La direzione di Hirofumi Yoshida ha impostato l’orchestra su volumi troppo elevati nell’intera esecuzione. Mediante un uso assai personale dei tempi, ha puntato ad accentuare le coloriture, sottolineando le (poche) pagine folkloristiche e portando nel golfo mistico la propria tradizione culturale che, non andrebbe però dimenticato, Puccini ha giocoforza mediato attraverso i canoni del verismo, linguaggio musicale italiano.
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Lirica
MADAMA BUTTERFLY
Madama Butterfly a Novara: essenza di poesia
Visto il
11-11-2011
al
Coccia
di Novara
(NO)