Lirica
MADAMA BUTTERFLY

Quando l'orchestra respira

Quando l'orchestra respira

Che bello sentire un’orchestra respirare così…piena di colori, carica di morbidezza, flessuosa e struggente nel suono degli archi, intensa e precisa nei fiati, compatta nel disegnare con estatico abbandono le limpide melodie pucciniane. Ed allo stesso tempo, capace di offrirsi con un suono solido e coeso, una copiosa gamma di sonorità, assecondando il gesto sobrio e misurato della sua guida musicale – Donato Renzetti – e mostrandosi irreprensibile sostegno del palcoscenico. Verrebbe anzi da dire, fondendosi a meraviglia con esso: specie in tutto l’impegnativo primo atto, con il passionale duetto d’amore dei due protagonisti sostenuto con tinteggiature e sonorità perfette.
Insomma, con questa “Madama Butterfly” portata in scena a cavallo tra febbraio e marzo al Teatro Verdi, il direttore abruzzese ha firmato un’esecuzione assolutamente esemplare, che non a caso il pubblico triestino ha mostrato di apprezzare con vigorosa riconoscenza in tutte le recite in programma.


L’allestimento, firmato da Giulio Ciabatti per la regia, e da Pier Paolo Bisleri per scene e costumi, non è peraltro affatto nuovo al pubblico di questa città, dato che venne presentato al Verdi nel giugno 2005 e poi ripreso ancora in aprile/maggio 2010. Per inciso, nel mezzo di queste date lo spettacolo fu presentato in Corea del Sud, al Sejong Arts Center di Seul, nell’ambito di una tournée delle maestranze triestine. In tempi di spending rewiew, l’allestimento è stato opportunamente rimesso in corsa pur con qualche piccolo ritocco, anche perché - nella sua relativa linearità - funziona benissimo sulla scena. Gli elementi architettonici ideati da Bisleri sono quasi minimalistici, immersi in ottimali giochi di luce e sostenuti da immani video proiezioni (qui c’è lo zampino di Claudio Schmid e del videomaker Antonio Giacomin); nondimeno appaiono più che bastevoli a delineare l’ambientazione con un accenno della ‘casa a soffietto’ tramite alte porte scorrevoli, una grande pianta di cilegio a sinistra, alcuni lunghi gradini in legno, ed al terzo atto un rosso portale sacro - il torii shintoista - che simboleggia il passaggio dalla dimensione terrena a quella celeste, avendo sullo sfondo uno scuro cielo stellato. Costumi ricchi nel colore e nel disegno, senza essere pedisseque copie di abiti originali per Cio-Cio-San, Suzuki, le amiche; più modesti per Goro ed i parenti; occidentali, ovviamente per Pinkerton, Sharpless, Kate; mezzo di qua, mezzo di là quello del ricco Yamadori, vestito da giapponese ma con una bombetta all’inglese. Quello che pareva del tutto fuori posto, invece, era un Zio Bonzo abbigliato e truccato come un ferocissimo samurai, con due stendardi infilati in cinture, ed ai lati quattro beceri guerrieri con la katana sguainata. Ma un bonzo non è un monaco buddista, pronto a predicare le quattro nobili verità e ricercare la pace interiore? Boh! A parte questa imbarazzante devianza, tuttavia, la regia di Ciabatti procede saggiamente, con tocchi leggeri, suggerendo una recitazione naturale ed immediata che dà senso compiuto alla narrazione.


Ci è parsa più che adeguata la scelta degli interpreti: nella prima compagnia figuravano nelle due parti protagonistiche Amarilli Nizza e Luciano Ganci, ma nella replica domenicale alla quale abbiamo assistito i due ruoli erano affidati a Mina Yamazaki e Luis Chapa. Il soprano giapponese ha fatto del ruolo di Cio-Cio-San un pilastro della propria carriera, e non si può darle torto: il personaggio della giovane sposa giapponese le calza – pare un’affermazione ovvia – più che benissimo, e non è solo questione fisica, ma anche psicologica: perché l’immedesimazione con la sventurata eroina pucciniana appare assoluta, e quindi la recitazione risulta praticamente perfetta; e poi la tessitura ardimentosa viene sostenuta con buona sicurezza, senza asprezze o forzature, offrendo momenti di particolare luminosità (il solo di “Ieri sono salita”, il duettone con Pinkerton) e di rispettabile spessore drammatico (il dialogo con Sharpless, “Un bel dì vedremo”).  Al confronto, Luis Chapa si pone uno scalino di sotto, ma non è solo colpa sua; è colpa anche del ruolo un po’ ingrato dell’incosciente e superficiale tenentino di marina; perché il timbro robusto ed il bel colore, l’emissione generosa, il discreto fraseggio non gli fanno temere défaillances, e lo scoglio di “Addio fiorito asil” viene superato agevolmente pur se, a nostro avviso, fa miglior figura in tutto il primo atto. E poi, la naturale empatia col pubblico – al quale pare strizzare l’occhiolino – fa perdonare una qualche genericità d’accento dovuta a quel naturale impeto che ben conosciamo nel tenore messicano. La parte di Sharpless non è spinosa vocalmente, ma attorialmente sì. A dispetto di un’età ancor giovane – trent’anni - Filippo Polinelli si mostra interprete molto maturo riuscendo un console pienamente persuasivo; un console sostenuto, per di più, da un timbro baritonale limpido e da una salda intonazione, che conferiscono consistenza all’arioso declamato pucciniano. Encomiabile Chiara Chialli nelle vesti di Suzuki, ruolo che ha ricevuto insolite attenzioni da parte della regia, ben ravvisabili nell’accurata recitazione; i giapponesi Munenaga Terada e Makoto Kuraishi sono risultati comprimari eccellenti – e non solo fisicamente - nei panni di Goro e di Yamadori; a posto anche Pietro Toscano (lo Zio Bonzo), Giuliano Pelizon (il Commissario imperiale), Giovanni Palumbo (l’Ufficiale del registro), Silvia Verzer (Kate). Da lodare, ovviamente, la buona prestazione del Coro triestino preparato da Paolo Vero.

Visto il
al Verdi di Trieste (TS)