Vi sono melodrammi che non necessitano affatto di gran dispiego di espedienti scenici; melodrammi per i quali, all'opposto, gioverebbe adottare un criterio di un'intelligente rarefazione – una sorta di deminutio visiva – tesa a concentrare anziché disperdere l'attenzione di chi siede in sala. Pensiamo al Tristan und Isolde, ed a Madama Butterfly, due opere che si potrebbero definire veramente “antispettacolari”. Storie quasi minimalistiche, senza folla e senza eventi clamorosi, incentrate sul rapporto tra un numero minimo di personaggi, e sullo sciogliersi di contrastanti (o contrastate) passioni, e di divergenti caratteri.
Ed è un criterio assunto con saggezza da molti registi, come in questo scarno ma nondimeno pregnante spettacolo, presentato alla Fenice per la prima volta nel giugno 2013 dal regista Àlex Rigola e dall'artista Mariko Mori, nota scultrice e designer giapponese, in collaborazione con il Festival della Musica di Venezia – la Biennale Musica, per intenderci – ed ora riproposto, a distanza di tre anni, sullo stesso palcoscenico con un diverso cast. Per considerazioni un po' più ampie sull'allestimento, nel suo insieme rimasto invariato, meglio rinviare chi ci legge al link che riporta quanto già detto all'epoca sul nostro sito (https://www.teatro.it/spettacoli/recensioni/madama_butterfly_26680).
Qui ci pare sufficiente ricordare come l'asciutta regia di Rigola, la rarefazione scenografica – uno spazio candido, riempito solo da due monumentali sculture - e l'estrema essenzialità dei costumi entrambi ideati dall'artista nipponica, convergono verso un comune intento di intensa ma spoglia drammaticità, restando al di fuori da qualsiasi svigorita volgarità. Complessivamente, è uno spettacolo che salvo qualche ruzzolone - come la fuorviante videoproiezione di astri e galassie nel breve intermezzo strumentale del terzo atto – può dirsi complessivamente ben costruito e convincente. Però, allo stesso tempo, uno di quei spettacoli – bastava sentire, allora come adesso, i commenti nel foyer del teatro veneziano – che dividono nettamente i pareri ed il gradimento del pubblico, tra chi lo accetta con entusiasmo e chi invece lo rifiuta sdegnosamente in toto. Rimpiangendo magari, in cuor suo, una leggiadra casa di bambù e odorose pergole di gelsomini in fiore.
Cast interamente rinnovato, s'è detto. Il ruolo principale è affidato al soprano sudcoreana Vittoria Yeo, che sta costruendosi in punta di piedi un interessante curriculum. Ha debuttato infatti in Italia tre anni fa poco più che trentenne al Ravenna Festival, nei panni di Lady Macbeth; ha affrontato l'anno scorso l'Elvira di Ernani con Riccardo Muti a Salisburgo e Ginevra ; la vedremo, pare, ad ottobre a Parma protagonista della verdiana Giovanna d'Arco. La tenera figura di Cio-Cio-San l'ha affrontata per la prima volta in un piccolo tour in teatri minori nel 2013; ora è la volta di un palcoscenico ben più importante come quello de La Fenice, di fronte ad un pubblico internazionale. Bene: con lei il personaggio c'è, tutto, e recitato molto bene, psicologicamente ben graduato dalla garrula gaiezza iniziale all'amara constatazione dell'abbandono, e poi reso ancor più credibile nella disperazione senza sbocchi del tragico epilogo. Ed è un personaggio sostenuto da una vocalità matura, ben equilibrata e senza falle, grazie ad un canto ricco di sfumature ed intenso, dal timbro caldo e seducente, e che senza sbandamenti sa salire agli acuti, espressivi nell'accento restando tersi e cristallini.
Una decina d'anni di meno li ha il giovane tenore Vincenzo Costanzo, che il ruolo di Pinkerton lo ha debuttato sempre qui a Venezia nel 2014, in una precedente ripresa di questo stessa Butterfly sotto la bacchetta di Bisanti. Non è un interprete del tutto irreprensibile – da migliorare un poco il fraseggio, da sanare la tendenza ad un'emissione troppo aperta - però la salda presenza scenica, il timbro chiaro e robusto, la franca espressività, la facilità di involo all'acuto sono meriti innegabili, e costruttive premesse di una carriera promettente. Luca Grassi – un veterano dell'opera, a loro confronto – delinea bene la personalità del console Sharpless con naturale compostezza e conveniente finezza vocale; ma anche con un poco di freddezza che guasta in qualche modo l'insieme. Il comprimariato era formato dal tenore Luca Casalin (un Goro troppo querulo), dalla valente mezzosprano Manuela Custer (una perfetta, patetica Suzuki), da William Corrò (Yamadori) e Cristian Saitta (lo zio bonzo).
Un concertatore di eccellenza, Myung-Whun Chung, è stato chiamato a presiedere l'Orchestra ed il Coro veneziani. Una partenza concitata e repentina degli strumenti fa temere il peggio, ma poi sotto il suo gesto tutto prende a filare liscio. Nessun languore, nessuna estasi liberty nella sua asciutta e nervosa lettura, elaborata piuttosto a favore di una narrazione lucida, tesa, nervosamente tragica; una guida solidissima, portata avanti adottando tempi sempre logici e sostenendo in ogni frangente il lavoro dei cantanti. Ma era soprattutto lo strumentale a far bella mostra di sé, perché Chung sa come sempre porgere massima attenzione alla precisione ed alla rotondità di suono d'una orchestra con la quale trova un prezioso feeling - lo rivela il caloroso battipiedi della buca - e che spinge sino a dare il massimo, in termini di duttilità, colori, sfumature.
(foto di Michele Crosera)