Eccellente progetto a Torino dello Stabile e del Regio di coprodurre Manfred, sicuramente l'opera migliore che lega la prosa alla lirica. Infatti le musiche che Schumann compose per il Manfred di Byron nel 1848 sono etichettate come “musiche di scena”, intendendo con ciò che avrebbero dovuto essere a supporto di una messa in scena teatrale. Invero Manfred di Byron (qui mirabilmente tradotto da Enzo Moscato) non è un lavoro destinato alla rappresentazione teatrale (che peraltro Byron detestava), quanto piuttosto un poema destinato alla lettura, chissà se nel genere delle “Lecturae Dantis” che imperversavano nell'Ottocento. Quindi le musiche di Schumann dovrebbero essere intese come melologo, cioè recitazione sostenuta dalla musica? Non sembrerebbe, ascoltando la composizione di Schumann, il suo respiro, la sua importanza, ma anche considerando la grandezza dell'organico e la complessità dell'insieme. In ogni caso Manfred appare come opera ideale per la coproduzione di questi due enti, equilibrio altissimo e perfetto di parola e musica, al punto da rappresentarlo identico prima nei ridotti spazi storici del Carignano e poi nei grandi spazi moderni del Regio.
Manfred è opera pienamente romantica; il protagonista cerca di ancorare la dispersione fenomenica che lo circonda a valori metaforici intrinseci alla sua coscienza, evocando spiriti, dominandoli, finendo per esserne soggiogato. Egli ripete a se stesso come un mantra “Io non ho paura”, anche di fronte all'abisso vertiginoso delle montagne (come spesso è rappresentato nella pittura); cerca febbrilmente e instancabilmente un Assoluto, di cui percepisce la presenza, a volte amica, a volte nemica. Insomma un eroe romantico da manuale, bello e dannato, indomito ed estremo.
Andrea De Rosa ne ha ricavato uno spettacolo essenziale, scarno, in cui la musica e la parola sono protagoniste sulla gestualità e il movimento. La scena fissa di Sergio Tramonti si struttura in una pedana quadrata che sorge nel golfo mistico, attaccata al palcoscenico; viene sfruttato il parapetto della platea, dove è collocato un microfono su asta. Sul fondo, ma invero dopo il proscenio, una struttura di tubi innocenti, dietro la quale è posizionata l'orchestra, schermata da un velatino. L'impalcatura consente di evocare vari ambienti, grazie all'ausilio del buio e delle luci.
I costumi di Fabio Sonnino virano al contemporaneo, puntando sulla riconoscibilità dei vari personaggi (il clergyman per l'abate, il cappello tirolese per il cacciatore) e lasciando al protagonista delle tracce di Ottocento (la giacca di velluto nero, i polsini di pizzo bianco). Contribuiscono in modo determinante alla riuscita dello spettacolo le luci di Pasquale Mari e i suoni di Hubert Westkemper.
Gianandrea Noseda rende appieno lo spirito romantico della partitura, le grandi arcate, la potenza del suono e l'orchestra del Regio lo segue ottimamente.
Valter Malosti è un Manfred inquieto, profondamente tormentato dalle paure, divorato dalle domande, ansioso di sapere, scoprire, cercare, come se questo bastasse a calmare il suo spirito. Fondamentalmente è un uomo totalmente solo. La voce di Malosti è sempre vibrante, carica di espressività; la recitazione misurata, mai ridondante, ma attenta a rendere appieno il tumulto interiore di Manfred. Con lui Marco Cavicchioli (il cacciatore di camosci e l'abate di San Maurizio), Daniela Piperno, Francesca Cutolo, Milvia Marigliano (gli spiriti), Paola Caterina D'Arienzo (Astarte, il corpo nudo sotto il foglio di cellophane trasparente). Le voci degli spiriti sono Cristina Barbieri, Daniela Pini, Matthias Stier e Andrea Papi, efficacemente collocati nella impalcatura immersa nel buio, solo i visi illuminati di taglio.
Qualche posto vuoto a teatro, anche a causa della concomitante partita della nazionale italiana; vivo successo di pubblico.