Lirica
MANON

PRECARIO EQUILIBRIO BORGHESE

PRECARIO EQUILIBRIO BORGHESE

Jules Massenet coglie nel romanzo dell'abate Prevost, che tanto scalpore aveva suscitato nel Settecento, gli elementi psicologici più sensibili alla coscienza borghese del tardo Ottocento. Laurent Pelly approfondisce proprio questo aspetto e dunque trasferisce l'ambientazione dal Settecento delle parrucche alla fine dell'Ottocento, l'epoca contemporanea al compositore, con la borghesia a dominare la scena oppure a guardare dalla finestra: sullo sfondo la precarietà di un mondo che si rivelerà tale qualche anno dopo ma di cui si iniziano a percepire i sintomi. Il regista descrive un mondo in difficile equilibrio, precario, dove i protagonisti si differenziano per la forza del sentimento da una grigia e ingabbiante uniformità.

La scenografia di Chantal Thomas, realista e simbolica al tempo stesso, non concede alternative. L'inizio è in un luogo che pare una casa trogloditica tunisina per la concezione dello spazio, a cui si accede dall'alto e che presenta buchi-finestre sui lati. Casette in miniatura fanno da parapetto alla terrazza superiore, creando una sensazione di “casa delle bambole” osservata da fuori con morbosità borghese per quel sentimento così “diverso” quale risulta essere l'amore. L'appartamento è una “scatola” sopra il tetto sostenuta da esili pilastri sullo sfondo dei tetti, superfetazione abusiva che fa apparire quell'amore abusivo (quanto meno agli occhi dei contemporanei). L'uso di ghisa per i parapetti e di lampioni rende la modernità dell'epoca, poi la presenza di neon consente un aggancio all'oggi ma senza forzature ma a vantaggio del perpetuarsi della vicenda.
Nelle successive scene un incrociarsi di pedane inclinate e un senso prepotente di imbutizzazione dello spazio che insiste su un'idea di predestinazione, di impossibile ribellione a un destino tracciato e obbligato. Nel finale una discesa verso il nulla, una specie di calata a mare che conduce a un cielo plumbeo, nuvoloso e tempestoso. Ci sono case inclinate, come le colonne di Saint Sulpice sbilanciate indietro che lasciano intendere una precarietà dei sentimenti che impone precarietà nelle azioni della vita quotidiana. E le sedie nella chiesa creano una sorta di labirinto inestricabile, aumentando il senso di impaludamento nelle “sabbie mobili” dell'amore mal corrisposto.
Se qualcuno avesse un dubbio, è presto chiarito: sognare non è possibile. Ombre si allungano sulla parete dell'hotel di Transilvania, Manon muore sfinita e sfibrata come una bambola vecchia.

I costumi di Laurent Pelly sono eleganti e neri per gli uomini, da gran sera e in pallide tonalità di rosa e bianchi per le donne, coevi all'ambientazione, riservando alla protagonista delle impennate di colore. La regia cura molto recitazione, gestualità, espressione, senza novità di particolare rilievo nel plot e nei caratteri. Una regia sottolineata dalle luci di Joel Adams e accompagnata dalle coreografie di Lionel Hoche: il ballo presenta un mondo vacuo ed effimero, le ragazze verranno ghermite dagli uomini come in un ratto parigino delle Sabine.

Manon è opera importante per la cultura francese, non solo per i pregi musicali e teatrali, ma per il linguaggio che, per certi versi, anticipa Debussy e Ravel ed è, al tempo stesso, il punto di arrivo del naturalismo musicale. Fabio Luisi ha gesto aristocratico; sottolinea la leggerezza e la raffinatezza tipicamente francesi della partitura avallando gli agganci con la tradizione precedente e senza eccessive aperture al verismo di stampo pucciniano. Il suono si dispiega con forza puntando sulla ricerca del particolare e non sulla muscolarità: ne esce un'opera dal carattere intimo e postromantico. Luisi bene evidenzia la tragedia della vicenda e la sua ironica leggerezza: il dramma e il carattere spumeggiante dell'opéra-comique si fondono magistralmente, scolorando a volte in qualche sorriso mai gratuito. Svelti in tempi, tanto che il qualche momento è mancato l'appiombo tra buca e palco.

A tali scelte si sono adeguati i cantanti, cercando non volume ma accenti e sfumature con il peso materico sullo sfondo (anche se la scenografia non sempre si presta a rimandare adeguatamente le voci). Ermonela Jaho è subentrata a Natalie Dessay e Anna Netrebko e ha convinto nel rendere la giovinezza della protagonista nel primo atto, anzi la sua adolescenzialità, con una voce luminosa che si è ben accompagnata alla musica; ha poi rivelato capacità di venare la voce con scurezze, rendendo i dubbi dell'anima e l'evoluzione interiore. La coloratura non è perfetta e qualche acuto resta tirato, la dizione delle vocali tende a modificare l'articolazione interna delle frasi. Se il personaggio non si impone alla scena, tuttavia il soprano ben esprime il passaggio dalla innocente curiosità del primo atto, alla sicurezza di sé del prosieguo (che la porta ad imporre sofferenze all'amato), alla disperazione del finale. Molto brava in “Adieu notre petite table”, le cui mezzevoci sono prodighe di espressività.
Matthew Polenzani sceglie una linea di canto giusta, non scivolando nell'eccesso di verismo e mantenendo una purezza aristocratica che contiene in sé morbidezza di emissione e calore, sia nel rapimento dell'estasi amorosa, sia nel doloroso ricordo che tormenta; da curare maggiormente la dizione. Talentuose attorialmente e brave vocalmente Linda Jung (Poussette), Luoise Innes (Javotte), Brenda Patterson (Rosette). Russel Braun è un convincente Lescaut in divisa militaresca. Invece non convince il conte des Grieux di Jean-Philippe Lafont, figura autorevole ma vocalmente oscillante.  Caricaturali il Guillot de Morfontaine di Christophe Mortagne e il De Brétigny di William Shimell dal ridicolo ciuffo. Adeguato L'hotelier di Dario Russo. Eccellente la prova del coro della Scala preparato da Bruno Casoni.

Teatro gremito, molti applausi durante la rappresentazione e nel finale per tutti, senza alcun dissenso.

Visto il
al Teatro Alla Scala di Milano (MI)