Lirica
MARIA STUARDA

Quando le regine sono due

Quando le regine sono due
Napoli, teatro di San Carlo, “Maria Stuarda” di Gaetano Donizetti QUANDO LE REGINE SONO DUE Maria Stuarda è una notevole prova nel repertorio del belcanto ma, al tempo stesso, presenta una interessante indagine della caratterialità dei personaggi, che non esibiscono solo doti canore. Infatti le due regine protagoniste, perchè Maria ed Elisabetta sono trattate da pari, sono indagate in modo analitico, sia nel proprio essere che nelle reazioni nell'incontro/scontro con altri, in particolare nei campi dell'amore e della politica di governo. Il dramma di Schiller ha offerto, in questo senso, notevole materiale al librettista Giuseppe Bardari che lo ha utilizzato sapientemente. Ha fatto molto bene il teatro di San Carlo (oggi di uno splendore che merita da solo il viaggio a Napoli, a prescindere da cosa ci sia in scena) ad affidarne la regia ad Andrea De Rosa, che tre anni fa aveva messo in scena (in prosa) proprio il dramma di Schiller, interpretato da Anna Bonaiuto e Frédérique Loliée, rispettivamente Elisabetta e Maria Stuarda. Il raro privilegio di riprendere lo spettacolo precedente è ottima occasione per il regista di ulteriori indagini ed approfondimenti. Di quello spettacolo viene utilizzato l'impianto scenico, splendido, essenziale ma efficacissimo, di Sergio Tramonti. Le pareti altissime sono prive di aperture, come se ci si trovasse all'interno di una scatola, foderata di rosso scuro con un effetto di pelle goffrata in modo irregolare. Lo spazio è completamente vuoto, al centro una bassa pedana (due soli gradini) e una sedia di velluto rosso, sedia elegante ma di certo non un trono, a cui però la posizione al centro della pedana rimanda. Qui inizia il dramma, in uno spazio privo di aperture, se non le porte di servizio che, invisibili nella scena, consentono di entrare ed uscire dal palco. Lo stesso coro viene rivelato da un'apertura orizzontale, una feritoia che corre lungo le pareti e consente alla scena di salire quel tanto che basta per intravedere il coro e il nero che circonda tutto, come nella vita delle protagoniste. Il secondo quadro è, oltre che molto bello, particolarmente efficace. Sulla parte alta della scena sono proiettate ombre di alberi, il taglio orizzontale rivela un azzurro che evoca cielo e aria aperta, anche se, sul palco (all'interno) la luce riesce solo ad infilarsi con poche, lunghe lame di sole. Gli alberi potrebbero essere betulle, esili tronchi privi di rami e di foglie, una idea del bosco e di “aperto” inarrivabile per Anna e Maria: gli alberi non sono alla loro portata, sono irraggiungibili, e il taglio che consente di guardare “oltre” è troppo in alto per loro. Condannate a non uscire. In ogni senso. E quegli alberi sono su fondo rosso: un incendio interiore. Anna e Maria sono accompagnate da una giovinetta, la cui presenza è assai utile per la ricchezza della scena: nel bosco “giocano” in tre (molto bello il momento in cui sono tutte e tre stese a terra a pancia all'aria), nella prigione languono in tre. Crudo e crudele l'incontro delle due regine, che questo sono prima che parenti. Due soldati costringono Maria ad inginocchiarsi, la quale rivela una superbia che prima, nell'intimità, non aveva; Elisabetta si irrigidisce ancor più e ancor più calca la mano per umiliare Maria. In due sulla pedana, come su un ring: intorno il pubblico dei cortigiani. La loro gestualità è a tratti simile, gli stessi moti di regalità, seppure stemperati in posizioni di forza opposte. Dopo l'intervallo siamo negli appartamenti di Elisabetta, la condanna a morte è stata firmata. Non c'è più la “scatola” asfittica a chiudere la scena, contenendola, ma il nulla: è finito tutto per la Stuarda (anche per Elisabetta, in fondo) e il buio più totale circonda la scena. Chi entra in scena, nel buio, pare arrivare da lontanissimo, rivelato gradualmente dalla perfette luci di Pasquale Mari, come presenze incorporee. Da quel buio, ed è un momento particolarmente emozionante, avanza la pedana con su la prigione di Maria Stuarda, spinta in avanti da due uomini con bastoni come nocchieri di un destino tragico. Quella prigione realizzata sopra una pedana che, a un certo punto, ha le pareti di tulle nero, velature luttuose che anneriscono la vestizione di Maria in abito bianco. Al momento della terribile esecuzione il telo di fondo cade a terra all'improvviso con un tonfo e rivela la muratura del teatro con, in controluce, la scure su un ceppo; poi una fila orizzontale di riflettori scende verso il basso accecando il pubblico e, pian piano, spegnendosi. Come la vita della Stuarda. Come quelle candele che, poco prima, Maria aveva spento con il palmo aperto, con la mano guantata di rosso che grida dolore sull'abito bianco immacolato. Andrea De Rosa è particolarmente attento ai dettagli della regia, consentendo allo spettatore non solo di seguire agevolmente ed efficacemente lo svolgersi degli eventi ma anche di cogliere sfumature nei personaggi e particolari nei comportamenti, espressi con grande naturalezza. Gesti contenuti che però dicono tutto. Meno efficace il momento in cui, nella prigione, Talbot e Maria spezzano il pane come per una “ultima cena”; fuori luogo la presenza sul patibolo di boia incappucciati con a tracolla fucili e pallottole, mentre l'allestimento è in epoca rinascimentale, come confermato dai bei costumi di Ursula Patzak. A una regia così bella, nitida e significativa ha dato pieno risalto la presenza di due regine di altissimo livello, perfette ed in forma, che si sono completate in modo eccellente, come già rilevammo nei Capuleti e Montecchi del Carlo Felice (recensione nel sito). Mariella Devia è probabilmente la migliore Stuarda possibile. La voce è ricchissima di colori, gli acuti sono sicuri nelle colorature e i gravi pieni di luce; i centri spessi e screziati le consentono di dare il massimo sia nei momenti intimi, di ripiego lirico, che in quelli di invettiva: le “parolacce” pronunciate contro Elisabetta a Napoli crearono un insuperabile impedimento negli anni Trenta dell'Ottocento con la moglie di Ferdinando II, la devotissima Maria Cristina di Savoia, discendente della Stuarda (ancora oggi, peraltro, quelle parole suonano particolarmente forti). Sonia Ganassi tratteggia eccezionalmente bene Elisabetta, riuscendo a trovare nel personaggio nuove pieghe rispetto anche alla recente prova alla Fenice (regia Denis Krief). Qui emerge maggiormente la capricciosità della regina e una rabbia improvvisa nel non riuscire a dominare gli eventi e gli uomini. Vocalmente la Ganassi fa sua la parte senza esitazioni né cedimenti in nessun registro e trasmette notevoli emozioni. Non adeguato il Roberto di Ricardo Bernal; la voce è aspra, poco ricca di colori e si assottiglia in alto e il personaggio risulta nel complesso privo di fascino. Invece molto bene i comprimari: il Talbot canuto ed autorevole, affascinantissimo, di Carlo Cigni, e il Cecil giovane e prepotente di Marco Caria, che, dall'inizio, si pongono come antagonisti, ai lati opposti di Elisabetta come i contendenti su un ring. Bene la Anna Keddedy di Caterina Di Tonno. Notevole il coro preparato da Salvatore Caputo. Andriy Yurkevych ha dato una lettura non particolarmente brillante della partitura; gli attacchi dell'orchestra non sempre precisi e i suoni sono talora sfocati; però i cantanti sono stati ben supportati. Pubblico affascinato dall'allestimento e dalle voci; vivo successo con applausi a scena aperta e molto lunghi alla fine, soprattutto per le due protagoniste; ovazioni per la Devia. FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)