Se da un lato La locandiera - intrigante confronto di caratteri, dove una bella e scaltra albergatrice trova gusto a farsi corteggiare dai suoi nobili ospiti - si può considerare tra le cose più note e più rappresentate di Carlo Goldoni, la Mirandolina di Bohuslav Martinů, che da quella commedia trae spunto, non gode di altrettanta fortuna. E nonostante gli indubbi pregi musicali di una partitura felice, pervasa di fresca amabilità ed attraversata da un eclettico e piacevole neoclassicismo – il suo autore la definì «una cosetta leggera e senza complicazioni che pone l'accento sulla cantabilità, con una piccola orchestra…gioiosa dall'inizio alla fine» - spiace dover osservare quanto Mirandolina sia trascurata dai teatri, per un'inspiegabile disaffezione verso un po' tutto il ragguardevole corpus creativo di Martinů: compositore cecoslovacco di nascita, ma che trascorse quasi tutta la sua carriera fuori patria, in Francia e negli USA soprattutto, e negli ultimi anni anche in Italia ed in Svizzera, dove morì nel 1959.
Non che manchi il materiale, anzi. In trent'anni di carriera, a partire da Voják a tanečnice (Il soldato e la ballerina) messo in scena a Brno nel 1928, sino alla Griechische Passion del 1958, rappresenta postuma a Zurigo nel 1961, Martinů si è dedicato con generoso impegno al teatro musicale, regalandoci in tutto ben 14 titoli. Ciò nonostante, quei suoi lavori stentano – malgrado la salda scrittura e la costante inventiva musicale, lo spiccato senso teatrale, l'originalità espressiva, il continuo rinnovarsi pur nella coerenza di linguaggio – a trovare un posto in repertorio. Fatti quattro conti, oggi come oggi il suo lavoro più noto e rappresentato è Juliette, fosco dramma dai tratti onirici composto nel 1936-37, e creato a Praga nel 1938 da Václav Talich. Poi il deserto. Senza tralasciare che Martinů si dedicò pure e con successo anche al teatro radiofonico: genere un tempo popolarissimo, del quale sopravvivono altre due creazioni qualche volta (diciamo assai raramente, via) ancora eseguite sulla scena: Commedia sul ponte, trasmessa da Radio Praga nel 1937 e presentata in palcoscenico a New York e Venezia nel 1951, ed Il matrimonio, tratto da Gogol, mandata in onda a New York nel 1953.
Mirandolina, penultima tra le opere teatrali del compositore di Polička, ebbe una curiosa genesi. La Fondazione Guggenheim gli aveva concesso una borsa di studio, avente per oggetto la stesura di un'opera. Grazie ad essa lasciò la rumorosa New York per soggiornare nella quieta della Provenza; scartati soggetti più impegnativi e scadendo il termine per la consegna, scelse infine la trama goldoniana, che con l'aiuto dell'amico Antonio Aniante - scrittore impegnato come attaché culturale presso l'Ambasciata Italiana a Nizza – confluì in un libretto in tre atti, tutto in italiano. Libretto in verità non miracoloso e poco apparentato all'originale, poiché si limita a rappezzare singole battute goldoniane senza rifonderle in un testo rinnovato; e perché più che veri caratteri, vi sono rappresentate delle semplici maschere. Quello che conta, però, è il trattamento che ne fa Martinů, e quindi la piacevolezza della musica che lo sottende. Creata al Teatro Nazionale di Praga nel maggio del 1959, in una traduzione ceca, Mirandolina vi rimase in repertorio sino al 1963 per essere poi nuovamente ripresa negli anni '80. Più vicino a noi, è stata messa in scena nell'estate 2002 al Wexford Festival sotto la bacchetta di Riccardo Frizza e con la regia di Paul Curran: bella e fortunata produzione – esiste un raro CD Supraphon - poi emigrata nell'aprile 2003 al Festival di Lugo di Romagna con la direzione di Roberto Polastri, dando luogo alla prima (e per quel che mi risulta, sin ad ora unica) esecuzione italiana.
Almeno sino ad ora, appunto: perché, inserendo Mirandolina come unico spettacolo lirico della sua programmazione estiva, il Teatro La Fenice non solo doverosamente la consegna finalmente alla città del grande Goldoni (a quasi sessant'anni dalla sua prima apparizione a Praga, peraltro); ma in più la propone ad un pubblico ben più ampio del coraggioso ma piccolo festival romagnolo, affidandone la direzione musicale a John Axelrod, e quella scenica a Gianmaria Aliverta.
Da parte sua, il cinquantenne direttore texano concerta con sapiente lucidità e con notevole souplesse, navigando agevolmente in una partitura eclettica e guizzante, dagli schemi ritmici sempre mutevoli e dalle sonorità estremamente cangianti, dove la linea melodica – irrequieta, pulsante e nervosa - passa sovente in secondo piano o addirittura si dissolve. Grande poi il rilievo conferito all'orchestrazione variegata, trasparente e luminosa ideata da Martinů, raggiungendo l'apice di una lettura assolutamente esemplare nel festoso Salterello strumentale in 6/8 a file piene, che apre a mo' d'intermezzo il terzo atto: momento nel quale sono peraltro emersi nettamente l'invidiabile nitore e la fluidità dell'eccellente compagine veneziana.
Quanto a Gianmaria Aliverta, con l'aiuto dello scenografo Massimo Cecchetto, del costumista Carlos Tieppo e del light designer Fabio Berettin – valide risorse interne della Fenice – il poco più che trentenne regista novarese ha elaborato uno spettacolo raffinato, scattante e divertente, ravvivato da trovate sempre indovinate; e fedele alle ragioni della musica. Scansando immagini settecentesche un po' stantie, hanno insieme trasformato la locanda fiorentina di Mirandolina in un moderno hotel con zona benessere – ben reso nei suoi ambienti da un'agile scena ruotante - dove gli ospiti passano il tempo oziando fra saune e massaggi. Traspongono insomma la storia ai tempi nostri, o meglio ancora nei luoghi dei vituperati “cinepanettoni”: l'atmosfera è circa la stessa, il Marchese di Forlimpopoli si comporta come un gretto industrialotto padano, il Conte di Albafiorita è raffigurato come un tamarro straricco, Ortensia e Dejanire sembrano due ragazzotte di borgata, volgari e coatte.
Al centro della girandola di personaggi sta ovviamente il piccante carattere di Mirandolina, qui ben rappresentata da Silvia Frigato: che magari non ha la voce sopranile piena e corposa che si vorrebbe, ma in compenso non ha problemi né di agilità né di fraseggio, né tanto meno mostra fatica in un ruolo alquanto pesante; ed in più sfoggia una piccante personalità, muovendosi sul palcoscenico con garbo e finezza indiscutibili.
Gli altri personaggi, di fronte a questa tellurica figura, la fanno un po' da comprimari; però sono comunque comprimari straordinari. Marcello Nardis pone in campo un'irresistibile inclinazione comica con il suo Conte d'Albafiorita; e non da meno è il travolgente Bruno Taddia nei panni del Marchese di Forlimpopoli. Omar Montanari rende benissimo, senza strafare, i perigliosi tormenti erotici del Cavaliere di Ripafratta, passato in un amen dalla becera misoginia all'infatuamento per la bella locandiera. Ben centrato il Fabrizio di Leonardo Cortellazzi, che si mostra calibrato nel gesto e perfetto nella condotta vocale. Divertentissime in scena le due “commedianti” Ortensia e Dejanira, disegnate con destrezza da Giulia Dalla Peruta e Laura Verrecchia; assai simpatico l'iperattivo e sempre sudatissimo servitore reso da Cristian Collia.
Il pubblico presente alla Fenice – peccato aver visto qualche posto vuoto – ha mostrato di apprezzare la coraggiosa riproposta di questo rarissimo lavoro, tributando a tutti gli interpreti ed al regista molti e calorosi applausi.
(foto di Michele Crosera)