Può un parco giochi diventare un confessionale? Deviare dal chiassoso vociare di bambini e approdare ai toni smorzati di una seduta psicoanalitica fai da te? Possono tre mamme scorgere nei loro pargoli scorazzanti le crepe del presente piuttosto che solide certezze per il futuro?
La risposta sta tutta nel dialogo fitto, disarmante e a tratti paradossale delle tre protagoniste di “M.Other”, messo in scena da Rifiuti Speciali, una produzione di Trento Spettacoli e la co-produzione del Festival Pergine Spettacolo Aperto 2015, scritto e diretto da Manuela Fischietti.
Una scrittura scenica che procede tra piccole manie quotidiane, miti salutisti che naufragano tra le pagine di rotocalchi da ombrellone, complessi edipici rovesciati e mai risolti, fughe immaginate e immaginarie, amori appena un po’ sbiaditi dal tempo che si riaffacciano per il breve spazio di una rimpatriata tra vecchi amici, statistiche disperate e disperanti di quante volte ancora si abbia la forza più che la voglia di farlo nel letto di casa propria o nella macchina come ai tempi del liceo.
Sullo sfondo, intanto, onnipresenti e ben salde a terra come radici di alberi o pareti claustrofobiche, stanno buste anonime, sacchetti di grandi magazzini nei quali è risucchiata la vita di ogni donna. Madre o figlia che sia.
Già, perché questo è il punto. Nessuna delle tre madri, che come ronde curiosamente immobili fanno la guardia ai loro pargoli, ha ancora smesso di essere figlie. C’è una madre dietro ogni figlia, è quello che verrebbe da pensare, e il cordone ombelicale diventa l’unità di misura di un affrancamento ricercato, ma mai per davvero raggiunto. L’antico monito di Brecht, “buona cosa è la dimenticanza”, non sembra ottenere risultati e le nostre protagoniste restano tragicamente sospese tra una madre ancora troppo presente e un figlio sul quale ancora non sanno quanto finiranno per pesare.
“M.Other” è uno spettacolo che sa di teatro, l’ironia sottile e tragicomica innanzitutto, il meccanismo drammaturgico che non insegue rivoli semantici da trattato linguistico, una regia sobria che non ammicca al pubblico ma al tempo stesso non si dimentica mai di averlo in sala trasformandosi in un esercizio solipsistico, un’interpretazione infine ricercata ma mai leziosa. Ornela Marcon si diverte e diverte con i suoi accenti ingenui di madre sempre madre a tutti i costi, Beatrice Uber tra sedute di yoga e amplessi da interno macchina disegna le fragilità di una donna doppio petto e pantaloni, Manuela Fischietti provoca, cuce, si arrabbia e tace, mentre matita alla mano esegue calcoli aritmetici per conto della figlia, dando voce a quelle donne che ancora non hanno ben compreso di quali panni si siano vestite una volta diventate madri.
E così, tra il ticchettio di orologio che scandisce le giornate, sgrassatori da pulizie domestiche e risate che si smorzano sulle note di un’indimenticata Giuni Russo, le nostre tre madri restano dove le avevamo trovate ad apertura di sipario. Lì, sulle loro sedie-panchine, a fabbricare merende di nutella, a buttare un occhio a Chiara o Lorenzo e un occhio, ma forse anche più di uno, a se stesse.