Danza
MOZART REQUIEM

Requiem danzato dalla Siberia

Requiem danzato dalla Siberia

Esponente tra i più interessanti della danza russa contemporanea, Boris Eifman svolge da quasi quarant’anni un fruttuoso percorso di ricerca nel quale gli ingredienti tecnici e i valori estetici della tradizione classica vengono sottoposti a costante ripensamento e intelligente reinvenzione. In questi giorni il San Carlo di Napoli ospita per la prima volta il geniale coreografo presentando il suo Mozart Requiem Ballet, una creazione risalente al 1991 e ripresa sui palcoscenici internazionali con costante successo.
Le note del capolavoro mozartiano diventano occasione di una meditazione sulla condizione umana compiuta per mezzo dell’eloquenza del corpo. Priva di una vera e propria scansione narrativa, l’azione si dipana come una successione di quadri scolpiti da luci sapienti e incorniciati da un fondale che, nel diverso comporsi di colori e pannelli, genera simboli e forme geometriche (a firmare le scene è Semen Pastuh). Grazie alla sua raffinata sensibilità musicale, Eifman riesce a liberare il gesto intrappolato nel suono e a rendere visibile l’impulso cinetico inscritto nella pulsazione ritmica. Tutti i movimenti appaiono perciò ‘naturali’, come scaturiti spontaneamente dalla partitura e capaci di illuminarne la sintassi e di assecondarne le tinte mutevoli con duttile efficacia. L’intimo legame tra la danza e la musica è implicitamente ribadito quando la prima si svolge in assenza della seconda prolungando nel silenzio l’armonia appena estinta o anticipando quella nascente, oppure quando le labbra dei ballerini si spalancano per mimare un impossibile canto che rappresenta il limite massimo dell’espressione corporea, costretta ad arrestarsi alle soglie dalla parola.


Lungi dal rincorrere trasposizioni meccaniche o ingenue, il maestro siberiano guida i cinque interpreti principali e le quattordici coppie che agiscono sulla scena in un gioco incessante di intensificazioni e assottigliamenti, flussi concordi e grovigli confusi. Le punte tragiche e le oasi meditative del “Requiem” risultano amplificate dal gesto, che assume risvolti drammatici e perfino grotteschi oppure curvature morbide e carezzevoli a seconda dell’esigenza espressiva. Eifman è altrettanto bravo nel governare le masse e gli individui. Nelle scene d’insieme i danzatori sembrano sospinti da folate di musica, intrecciano furiosi girotondi, sfilano in meste processioni oppure si aggregano in fragili corolle. Nei segmenti a uno, a due e a tre, spesso dominati da toni elegiaci, le combinazioni audaci e tortuose delle membra acquistano un’intensa plasticità e approdano a esiti sorprendenti. Alcune intuizioni risultano di forte impatto: nel quadro iniziale (“Requiem aeternam”), i macigni trainati a fatica da figure curve e dolenti sembrano materializzare le pene che opprimono l’esistenza individuale; il “Dies irae”, segnato da moti scomposti e disposizioni sghembe, rappresenta il caos generato dal terrore; una commovente deposizione accompagna la supplica del “Voca me” dopo la concitazione del “Confutatis maledictis”; le detonazioni del “Sanctus” producono guizzi muscolari istantanei che sembrano rianimare un’umanità sgomenta; riuscitissimo, infine, risulta il colpo d’occhio conclusivo (“Lux aeterna”), nel quale la speranza della salvezza tinge il cielo di azzurro e gli abiti di bianco.


In qualche punto si ha l’impressione che Eifman si lasci prendere la mano e indulga a un certo compiacimento effettistico estraneo all’equilibrio complessivo (così accade ad esempio con i bozzoli-sarcofago che appaiono nel “Lacrimosa”, con le maschere-teschio che fungono da doppio volto all’inizio dell’“Agnus Dei”, con l’estremizzazione vampiresca conferita al personaggio del Vecchio). Nell’insieme, tuttavia, lo spettacolo è potente e suggestivo e trasmette emozioni intense allo spettatore.
Ciò avviene anche grazie alla bravura del quintetto dei solisti, nel quale i russi Oleg Gabyshev e Lyubov Andreyeva dell’Eifman Ballet di San Pietroburgo sono affiancati dagli italiani Alessandra Veronetti, Salvatore Manzo e Edmondo Tucci del corpo di ballo del San Carlo.

L’esecuzione delle pagine mozartiane è affidata alla bacchetta di Hansjörg Albrecht. Non è facile - e forse è inopportuno - valutare in astratto un’interpretazione musicale funzionale ad altro. Nel caso in esame, non si può dire quanto lo stacco dei tempi, gli indugi o le accelerazioni derivino dalla scelta del direttore o, più probabilmente, da un’azione concordata tra questi e il coreografo e giustificata in ultima istanza dalle necessità della danza. Di fatto si è avuta l’impressione che il piglio incisivo e asciutto di Albrecht, incline ad esempio a conferire una spigolosa sveltezza al “Rex tremendae”, non sia stato sempre perfettamente assecondato dall’orchestra. La prestazione del coro, guidato da Salvatore Caputo, è parsa buona nonostante qualche incertezza negli attacchi. Il quartetto vocale costituito da Yuliya Poleschchuk (soprano), Adriana Di Paola (mezzosoprano), Leonardo Cortellazzi (tenore) e Umberto Chiummo (basso) ha svolto il proprio compito con diligenza.

Il pubblico ha molto apprezzato le invenzioni di Eifman e con un applauso caloroso e prolungato ha costretto tutti gli artisti a iterate uscite.

Visto il
al San Carlo di Napoli (NA)