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NATALE IN CASA CUPIELLO

Il Natale da casa Cupiello trasloca a casa Beckett

Il Natale da casa Cupiello trasloca a casa Beckett

Portare in scena un classico del novecento come “Natale in casa Cupiello” , una delle più note commedie di Eduardo De Filippo, entrata nell’immaginario collettivo di oltre tre generazioni anche grazie all’immortale versione televisiva del 1977, è un’impresa tutt’altro che facile, e, sicuramente, necessita di una motivazione artistica importante, che garantisca l’assenza di sterile emulazione ma anche di strumentalizzazione gratuita. Nello Mascia, attore di grande temperamento e di ottime caratteristiche interpretative, è senz’altro uno degli interpreti ideali del teatro di Eduardo, per le ottime credenziali di cui sopra, ed anche perché, pur appartenendo ad una scuola di tradizione napoletana, riesce a staccarsi dai cliché scontati che strizzino l’occhio alla facile imitazione. “Natale in casa Cupiello” , però,  non è solo nelle mani del suo protagonista assoluto ma, come la su citata edizione televisiva ci insegna, necessita di una compagnia di altrettanto validi attori ,che sappia sostenere tensione, comicità e ritmo di un copione che rischierebbe altrimenti di cadere in inutile retorica, o, nel caso di un eccesso di autorialità, in caratterizzazioni distanti e poco consone al funzionamento sia della macchina teatrale che della giusta interpretazione di un testo imprevedibilmente insidioso, al quale una regia che si posa su solide esigenze espressive può rendere giustizia ad una rappresentazione che finalmente si sganci da paragoni con illustri precedenti. A malincuore dobbiamo però prendere nota che Nello Mascia regista  gioca le sue carte in maniera non altrettanto convincente rispetto al Nello Mascia attore, peccando, a nostro avviso, di un tentativo di ricercatezza autorale che non riesce ad arrivare fino in fondo, confezionando uno spettacolo che si perde in mille strade senza percorrerne fino in fondo nessuna in maniera efficace: un, a nostro avviso immotivato, “beckettismo” (non bastano, sinceramente, le bombette in testa ai personaggi maschili o i vestiti quasi da barboni addosso al microcosmo femminile delle vicine di casa del terzo atto ad avvicinare il portabandiera del dramma borghese del novecento italiano al suo contemporaneo anglo-francese che fu maestro del Teatro del’Assurdo) un citazionismo che omaggia metateatralmente Eduardo in un suo stesso testo (l’inserimento della poesia “Si t’ho sapesse dicere” fatta recitare dai due amanti Ninuccia e Vittorio mentre sta per scoppiare il putiferio del cenone natalizio risulta quanto meno sconclusionato, così come il far inforcare, nell’ultima scena,  a Luca Cupiello le lenti che ricordano quelle che furono in vecchiaia del grande autore) mal si amalgamano alle interpretazioni di stampo tradizionale, che tra parentesi risultano le più convincenti, di Roberto Giordano (un Tommasino stralunato e sicuramente ispirato dai suoi  precedenti interpreti), Gino Monteleone (un Nicolino misurato e ricco di tensioni, senza compiacimenti) e Sergio Basile (con Mascia il migliore in scena nel ruolo di zio Pasqualino). Il resto delle interpretazioni, ci duole dirlo, risultano fuori ruolo o poco mature, con una menzione di merito a Benedetta Buccellato che, da bravissima attrice qual è, cerca di ridurre al massimo l’enorme gap che la divide da Concetta, che, però, con la sua interpretazione perde il colore di piccolo borghese proletaria, per diventare una austera, dignitosa, rigida signora di mezza età che reagisce agli infantilismi del marito alla stregua di una severa ma materna istitutrice. Insomma lo spettacolo risulta farraginoso e debole nella sua costruzione, poggiando le sue basi sui pilastri recitativi del protagonista che riesce a regalarci la più forte emozione nel finale in cui il piccolo uomo diventa grande realizzando il suo immaginario ed atroce presepio nel passaggio verso la morte. Il pubblico gradisce, applaude e ride molto spesso, il più delle volte qualche secondo prima che le famose battute vengano recitate dagli attori, memore di un testo acquisito nel DNA degli italiani.

Visto il
al Ivo Chiesa di Genova (GE)