Lirica
NORMA

Trionfa a Trieste la Norma di Marina Rebeka

Trionfa a Trieste la Norma di Marina Rebeka

A sette anni di distanza dalla precedente produzione, ha fatto ritorno sulle scene triestine l'allestimento di Norma già visto nel 2009, ma che Pier Paolo Bisleri presentò nell'ormai lontano 1991 al Petruzzelli di Bari giusto prima del funesto rogo, partendo da un'idea pittorica di Mario Schifano; un allestimento essenziale e raffinato - e tutt'ora attuale, come dimostrano le varie riprese - che partendo dall'idea della grande quercia policroma disegnata dal compianto artista romano, ne varia la simbologia sino a farne un sottile profilo di luci al neon; e prevede l'uso di scarne e spaziose ambientazioni intrise di severo neoclassicismo. In questo caso, l'altrettanto sobria regia di Federico Tiezzi, che viaggia su percorsi di scabra e pregnante gestualità, è stata ripresa con abile competenza da Oscar Cecchi, mostrando di possedere ancora tutti i suoi punti di merito; gli stilizzati abiti, ovviamente, sono sempre quelli disegnati a suo tempo da Giovanna Buzzi.
Dal punto di vista dello spettacolo, dunque, nessuna attesa; molta aspettativa era invece in campo tra gli appassionati per il debutto – al Verdi di Trieste, ma anche nel ruolo protagonistico – del giovane soprano lettore Marina Rebeka, che sembra ormai lanciata in una carriera inarrestabile. E qui lasciatemi spendere qualche parola.
«La Norma è un'opera dalla connotazione ambigua, neoclassica per qualche aspetto, romantica per altri. Questa fisionomia mista è nei personaggi, nell'ambientazione...nella vocalità. Questo vale, in modo particolare, per la protagonista» commenta Rodolfo Celletti, prima di immergersi in una puntigliosa disamina sulla questione, nell'ambito del densissimo programma di sala che accompagnava - correva l'anno 1991 - la riproposizione di Norma in occasione dei festeggiamenti dei cent'anni di vita del Teatro Massimo Bellini di Catania. Anche Giorgio Gualerzi, altro grande esperto di vocalità, ci mette del suo; ed entrambi, seppure per vie diverse, finiscono per concludere che la soluzione più corretta per il binomio Norma/Adalgisa - tenuto conto dei precedenti storici e della tessitura assegnata - sarebbe quella di affidare l'una ad un mezzosoprano 'acuto' (oppure alla corposità di un soprano lirico pieno), capace di profilare vocalmente e psicologicamente una sacerdotessa madre già di due figli, e l'altra ad un soprano lirico leggero, in grado di contrapporle una figura più adolescenziale. Proprio come fece lo stesso Celletti, in veste di direttore artistico del Festival di Martina Franca, affidando nel 1978  – memorabile allestimento – la prima a Grace Bumbry e la seconda a Lella Cuberli.

Non è il caso qui di riaprire la vexata questio per cui si continua, per stanca ed inopinata tradizione, ad invertire i ruoli (Norma ad un soprano, Adalgisa ad un mezzosoprano); ma nondimeno è facile notare che, nel momento in cui si sceglie di convocare un soprano d'eccellenza, ma che affronta per la prima volta questo ruolo cardinale come Marina Rebeka, qualche problema può nascere. Per carità, frecce al suo arco ne ha parecchie, e le sa usare con grande abilità: possiede un timbro morbidissimo e vellutato, una preparazione tecnica ineccepibile, un buon registro centrale, filati e fraseggiare eleganti, acuti tersi e limpidi a cui sale con facilità; ma, soprattutto, e sa mostrarsi interprete raffinata ed intelligente, mai debordante. Di qui, un ottimo esordio nell'incisività di «Sediziose voci», un'alta prova di eleganza formale nelle ampie arcate melodiche di «Casta diva» e nelle colorature ben risolte della cabaletta «Ah, bello a me ritorna»; e molte belle emozioni nel tenero dialogo con Adalgisa («T'inoltra, o giovinetta»), e mesta e tragica dolcezza nel meditare l'infanticidio dei figli («Dormono entrambi...Teneri figli»). La tempra è quella della grande interprete, non c'è dubbio.  Però i conti non tornano quando il soprano di Riga deve affrontare il settore grave - che qui conta assai - dove il canto le diviene un po' problematico, costringendola a spingere e forzare il suono (e magari scivolare nel parlato). Come nel torrido confronto con un Pollione fedifrago («In mia man alfin tu sei...»), là dove la voce perde di smalto e lucentezza: è che per me, e per ora la tessitura di Norma - al di là del futuro debutto al Metropolitan, che auguriamo di cuore sia positivo – non le s'addice completamente: basti vedere i ruoli sinora affrontati, e che rispondono ai nomi di Manon (Massenet), Lëila e Micaëla (Bizet), Antonia (Offenbach), Juliette (Gounod) Fiordiligi, Elettra, Donna Anna e Donna Elvira (Mozart), e via di questo passo. Ruoli, cioè, che mai (o solo in rari momenti) affondano nel registro basso della voce. Questo il mio parere, condivisibile o meno; ma va detto per onestà che il pubblico triestino non si è posto questi problemi filologici, ed ha apprezzato entusiasticamente questa sua nuova performance riservandole calorosissime ovazioni (largamente tributatele anche alla prima, come leggo), allargando poi il suo vivo apprezzamento a tutti gli altri interpreti. Cosa inusuale, per un pubblico solitamente un po' compassato come quello del Verdi.
Accanto a lei, l'Adalgisa del giovane mezzosoprano russo Anna Goryachova garantiva un'altra presenza impeccabile sulla scena: timbro vellutato e brunito (ma non troppo, salvandone così il carattere adolescenziale), riflessi luminescenti sia nel medio che nell'alto registro, incisività d'accento e buon dominio delle colorature; ma soprattutto pienissima resa di quella ingenua e trepidante femminilità che è carattere imprescindibile di questo ruolo.
Molta enfasi ed irruenza vocale, ma anche qualche sfocatura nel monolitico Pollione di Rubens Pellizzari, chiamato dall'altro cast a sostituire - con generosa disponibilità, va riconosciuto – un indisposto Sergio Escobar; e due recite una di seguito l'altra non sono un gioco da ragazzi. L'Oroveso di Andrea Comelli non va al di là del compitino svolto in classe (com'era algido e rigido il suo «Ah del Tebro»!); sopra la sufficienza la Clotilde di Kaoruro Kambe (in sostituzione dell'annunciata Hanna Yevtiekhova), appena sotto il Flavio del tenore Moturahu Takei; professionale, come al solito, la prestazione del Coro del Verdi, preparato da Fulvio Fogliazza.
Ultima, ma non certo meno importante, la lodevole direzione di Fabrizio Maria Carminati: uno dei rari maestri d'oggidì in grado di assecondare con estremo giudizio l'impegno dei cantanti, senza inutili protagonismi. E pertanto, non solo altamente professionale nell'ottenere il meglio dagli orchestrali del Verdi, ma soprattutto molto pragmatica nella lettura, com'è nel suo stile; staccando cioè tempi giustissimi che non mettono in difficoltà i cantanti, ma li aiutano a brillare, e distillando sonorità calibratissime che mai li affaticano né tanto meno li sommergono. D'altro canto, in Bellini più che in altri, il canto e la melodia sono i veri sovrani, che si voglia o no; e qui entrambi, anche per merito suo, brillavano luminosi come astri nel cielo.
(foto Visual Art)

Visto il 31-01-2016
al Verdi di Trieste (TS)