Lirica
NORMA

Una grande Mariella Devia nella 'Norma' di Napoli

Una grande Mariella Devia nella 'Norma' di Napoli

Entro l’ampia galleria dei ruoli operistici, Norma è una figura affascinante come poche. Il personaggio creato da Bellini, infatti, accoglie in sé una straordinaria stratificazione di riferimenti e suggestioni. La fonte diretta utilizzata da Felice Romani, la tragedia Norma ou L’infanticide (1831) di Alexandre Soumet, è già un intricato palinsesto che mescola elementi celtici e mitologia germanica, impero romano e impero carolingio. Soumet tratteggia il carattere della protagonista avendo in mente non soltanto l’archetipo classico di Medea, ma anche la Phédora del Pharamond (1825), opera composita alla quale aveva contribuito in qualità di librettista, nonché la Velléda dei Martyrs (1809) di Chateaubriand. Una volta giunto nelle mani di Romani, il soggetto si arricchisce di un’ulteriore, fondamentale suggestione: sul profilo della druidessa si allunga l’ombra della Didone virgiliana. Alcuni dettagli della versificazione avvalorano l’ipotesi di un rimescolio carsico, di una contaminazione memoriale. E se nel sacrificio-suicidio Norma segue le orme della regina di Cartagine, l’odiamato Pollione è un Enea che torna indietro o, se si vuole, un risarcimento della Roma trionfante al ‘pio’ abbandono che prelude alla Roma nascente.

Tanta ricchezza di significati si traduce nella complessità del personaggio, che è insieme madre e maga, profetessa e amante, che prova ed esprime sentimenti estremi, che è lucida e folle, che alterna determinazione e smarrimento, tenerezza e furore. All’interprete di Norma, pertanto, è richiesta non soltanto una voce duttilissima, capace di passare dal virtuosismo pirotecnico alla confessione intima, ma anche una sensibilità interpretativa superiore che renda giustizia a tante e diverse sfumature psicologiche. L’ardua sfida è stata raccolta con coraggio e superata brillantemente da Mariella Devia, che sulle tavole del San Carlo ha dato vita a una performance intensa e toccante. La Devia insegna che cantare non significa semplicemente emettere suoni intonati, ma trasmettere un senso e suscitare un’emozione coerenti con la congiuntura drammatica. Poco importa, allora, se il registro grave rivela qualche sforzo, se i passi di agilità non vengono affrontati con spavalderia. I vasti declamati sono scolpiti con risonanze mutevoli, ma senza mai perdere di vista la coesione dell’insieme. I momenti cantabili sono porti con emissione limpida e con straordinaria varietà di inflessioni. E basta sentirla pronunciare “Son io” nel momento cruciale dell’ultima scena per comprendere di avere di fronte un’artista rara. Se a tutto ciò si aggiungono la regalità misurata del gesto e la capacità di dominare la scena senza ostentazione, ben si comprendono la durata e l’intensità degli applausi con i quali il pubblico napoletano ha giustamente premiato l’ottima interpretazione.

Luciano Ganci si è fatto apprezzare nei panni di Pollione per la bellezza e l’omogeneità del timbro; nella sua prova, improntata a grande sicurezza, si notano solo poche sbavature indotte dall’irruenza. Laura Polverelli è risultata un’Adalgisa convincente nonostante qualche asprezza nel canto e una certa rigidità nel gesto. L’Oroveso di Carlo Colombara parte dimesso ma recupera ben presto incisività e pienezza. Un plauso speciale merita Francesco Pittari, che ha dato rilievo a Flavio grazie alla bella voce e all’ottima presenza scenica. Clarissa Costanzo è parsa precisa ed espressiva nel ruolo di Clotilde.

Sul podio, Nello Santi, che pure ha cavato un bel suono dall’orchestra sancarliana, non è sembrato sempre in grado di controllare la mutevole pulsazione della partitura belliniana. Il coro ha fornito una prova discontinua.
Il regista Lorenzo Amato e lo scenografo Ezio Frigerio hanno immaginato una cornice suggestiva per la vicenda: uno spazio un po’ ecologico e un po’ fantasy, nel quale le quinte e gli elementi mobili si combinano con le proiezioni di Sergio Metalli. Il fondale virtuale muta assecondando le diverse ambientazioni richieste dalla trama: è foresta, è dirupo, è evocazione dell’immagine divina, è, infine, vasto e rovinoso incendio. Nel disegnare i costumi, Franca Squarciapino è rimasta un po’ indecisa tra fogge genericamente barbariche, mantelli con cappuccio monacale e sgargianti tunichette con foulard.

Visto il 24-02-2016
al San Carlo di Napoli (NA)