Norma è un melodramma di natura ambigua, alternando momenti di purezza neoclassica ed altri dall'impetuosità pienamente romantica, e pure la linea vocale della sua protagonista fa emergere qualche dubbio circa il registro di pertinenza. Se sul piano pratico oggi si ritiene che la parte sia consona ad un soprano, nondimeno Bellini l'aveva scritta per Giuditta Pasta, vale a dire per un mezzosoprano dotato di una voce molto estesa nella gamma, famosa per le parti “in coturno”, cioè ispirate alla mitologia ed alla storia greco-romane: protagonista della Medea di Mayr, Briseide dell'Achille di Paër, Arsace dell'Aureliano di Rossini, ruoli della stessa razza della Norma belliniana che battezzò proprio lei con successo nel 1831, avendo al suo fianco l'angelica Adalgisa di Giulia Grisi. Però l'estensione della sua voce, partendo dal la 2 (nota già da contralto) poteva agilmente raggiungere certe note alte tipiche dei soprani come il re 5 - suo limite in alto - rese per di più con purezza e facilità, come testimonia nella sua Vie de Rossini lo Stendhal, che ne elogia anche la singolare capacità di sprigionare vibrazioni «sonore e magnetiche» capaci di conquistare lo spettatore, e di colorare a perfezione la singola frase trovando sempre pertinenti sfumature di suono e di accento. Di qui i grandi successi ottenuti dalla Pasta prima in Cenerentola, Semiramide, Tancredi ed Otello di Rossini, per poi passare in parti di vero soprano drammatico di agilità romantico – termine che sarebbe stato coniato molto dopo per Maria Callas – quale applaudita interprete di Sonnambula, Pirata, Beatrice di Tenda di Bellini, di Anna Bolena ed Ugo di Parigi di Donizetti; ruoli che affrontava evitando l'enfasi e l'irruenza emotiva proposte dall'onda del nuovo Romanticismo, preferendo infondendervi quell'aura di regale sacralità che le era propria. Chiudendo il discorso, per Norma – personaggio sacerdotale, nonchè celata amante e madre - servirebbe «un timbro tendenzialmente scuro e un fraseggio ampio, solenne, altisonante in taluni momenti, incisivo e rovente in altri», come scriveva Rodolfo Celletti; e quindi si dovrebbe consegnare per contrapposizione la pudibonda Adalgisa ad un timbro chiaro e luminoso. Il curioso è che per un'abitudine inveterata e deleteria, risalente alle celebri sorelle Marchisio – Barbara e Carlotta – solite esibirsi insieme a metà Ottocento, le cose si sono addirittura ribaltate: la figura della giovane novizia venne solitamente conferita ad una voce grave, e quella della più matura sacerdotessa ad un soprano in grado d'affrontare le asperità del registro superiore. Per inciso, fu proprio Celletti a raddrizzare per primo le cose, affidando Adalgisa - nel 1977, a Martina Franca - alla prodigiosa Lella Cuberli, e Norma alla brunita voce di Grace Bumbry.
In questo nuovo allestimento veneziano, dove s'incontra come Norma un soprano - Carmela Remigio – e come Adalgisa un mezzosoprano – Veronica Simeoni – torniamo ahimé da capo. In realtà, la brava cantante pescarese – grande star del recente Alceste veneziano – pare cimentarsi nelle due parti con curiosa alternanza: Norma a Bari nel 2011, Adalgisa a Roma nel 2012 ed a Bologna nel 2013. Senza dimenticare che agli albori della carriera fu un'emozionantissima Adalgisa nella produzione diretta da F.M. Carminati nel 2004 ad Ancona, a fianco di una strepitosa Cedolins (incisione live Bongiovanni disponibile per la prova). Sarò pedante, ma in questa sua passionale sacerdotessa i risultati sono alterni, e riassumibili in due parole. Eccellente l'espressività del personaggio, e dipanato egregiamente il registro medio e superiore: grande dolcezza nelle lunghe arcate melodiche di Casta Diva, benissimo il primo duetto con la giovane rivale (stracarico di fiorettature, ben rese da entrambe la parti), veemente la passione nel meditare l'uccisione dei figli. Ma le note gravi sono un po' modeste, di poco spessore; ed anche un complesso passaggio come il declamatorio ed aulico Sediziose voci non trova la pertinente intensità. Accanto le sta un mezzosoprano di grande talento e dalla tecnica saldissima - Veronica Simeoni – per offrire un'Adalgisa dal timbro vellutato e fulgente; un'eccellente fraseggiatrice, che accarezza i suoni e sottolinea la potenza evocatrice della parola, e regge senza cedere terreno i serrati confronti con l'inaspettata rivale. Chiara la visione che Gregory Kunde ha di Pollione, energumeno tutto testosterone e strapotente: procedendo con accento vigoroso e sostenendo con buona precisione tutte le agilità (coserelle importanti, da altri sovente spianate) consegna Meco all'altar di Venere e Me protegge, me difende con suono vigoroso ed acuti sfavillanti, e procede con un canto intriso di fierezza e spavalderia – ma anche attento ai mezzi toni - sollevando l'entusiasmo della platea. Il basso russo Dmitry Beloselskiy ha ben dosato fraseggio, colori ed i suoni nel suo autorevole Oroveso, persuadendo d'autorità sin dall'attacco solenne di Ite sul colle; Anna Bordignon era Clotilde, Emanuele Giannino impersonava Flavio.
Su tutti vigilava con oculata saviezza la limpida concertazione Gaetano d'Espinosa che, in un'opera in cui il canto è (quasi) tutto, ottiene risultati eccellenti procedendo con tempi ragionevoli e bei ritmi serrati; e nel creare un'ottima tenuta sonora complessiva, non ignora mai quegli eloquenti e preziosi particolari strumentali che – alla faccia dei detrattori di Bellini – costellano ogni momento di questa partitura rendendola così unica. nel suo procedere gli è valido sussidio un'orchestra attenta e partecipe, come pure il bravo coro veneziano ben preparato da Claudio Marino Moretti.
Questa nuovissima Norma nasce da un progetto speciale varato a quattro mani da Fondazione Fenice e Biennale d'Arte 2015, e vede regia, scene e costumi consegnati nelle mani dell'artista afroamericana Kara Walker, che della denuncia della violenza e delle soprraffazioni d'ogni genere ha fatto il leit-motiv dei suoi lavori. Ora, partendo dallo spunto iniziale di trasporre la storia dalle foreste dell'antica Gallia alle savane dell'Africa violentata ed asservita dalle conquiste coloniali (idea fortemente caratterizzata, che può piacere o meno, ma non in sé futile né disprezzabile) non mi pare di scorgere nello spettacolo veneziano l'apparenza di una vera e propria regia, così che l'azione ristagna; e ciò a dispetto dell'intervento - credo non proprio marginale - di Ann Christin Rommen, abituale partner di Bob Wilson. Quanto alla parte visiva, la Walker ha occupato il palcoscenico con una monumentale testa d'ebano, messa di profilo come fosse una roccia, disponendo sullo sfondo evocativi sfondi in bianco e nero translucidi (una foresta, un cielo lunato, un grande volto) utilizzando quella tecnica delle silhouettes che l'ha resa famosa. Pensando ai costumi, ha fatto indossare a quelli che potevano sembrare dei guerrieri Masai dei lunghi gonnelloni rossi che lasciavano scoperte le spalle; qui però le sagome non proprio atletiche dei coristi, disposti a mezza luna sulla suddetta testona, cagionavano un involontario effetto umoristico. Per tutti gli altri eleganti vesti candide e complicate acconciature di sapore vagamente egizio, con il curioso effetto che le due protagoniste, debitamente scurite in volto, rammentavano agli aficionados del melodramma pari pari le figure di Amneris e Aida, altre celebri rivali in amore. Per Oroveso, lo stregone del villaggio, una pelle di leopardo di traverso sulle spalle; per Pollione, detestato conquistatore bianco, ovviamente una divisa sahariana e lungo foulard al collo; il massimo del ridicolo lo raggiungeva un Flavio che mimava la tipica macchietta dell'esploratore europeo, cioè occhialetti, casco coloniale e schioppo in spalla.
Grande successo di pubblico, con lunghe ovazioni rivolte in particolare alle due protagoniste, molti apprezzamenti rivolti anche all'artista newyorchese.