Lirica
NUR

LUCE FRA LE ROVINE DEL TERREMOTO

LUCE FRA LE ROVINE DEL TERREMOTO

Il Festival della Valle d’Itria – specie in questi ultimi anni - ama coniugare il passato e sempre attuale panorama lirico con quello meno abituale del contemporaneo. Per questo la direzione artistica del Festival ha commissionato al compositore abruzzese Marco Taralli, alla sua seconda esperienza melodrammatica, un’opera lirica con libretto che Vincenzo De Vivo ha tratto da uno spunto originale dello scrittore Marco Buticchi. Marco Taralli è nato nel 1967 a L’Aquila, città che deve portare sicuramente nel cuore, poiché è la vera protagonista di questo lavoro lirico.

Nûr (luce in arabo) è un’opera che prende spunto da un triste e luttuoso evento contemporaneo: il terremoto de L’Aquila e si svolge in una notte, tra i letti di un improvvisato ospedale da campo allestito nel prato di Collemaggio. Narra la storia di una donna senza nome, terrorizzata e confusa, che ha misteriosamente perso la vista nel crollo della sua casa e che trascorre una notte di delirio e visioni; i compagni di corsia, disturbati dal suo continuo lamentarsi per il buio che la circonda, la chiamano Luce e si prendono cura di lei un vecchio frate, che nessuno tranne Luce può vedere, e un giovane medico arabo, contrastato a sua volta dalla concretezza spiccia del Primario, che nell’emergenza del momento rimuove lo spazio della compassione umana, vissuta come ostacolo all’efficienza delle cure. Sotto la superficie di questa drammatica vicenda notturna, narrata con la velocità di una cronaca e che allo spuntare dell’alba approderà a una scoperta salvifica per la coscienza della donna, riemerge in forma quasi trasfigurata la vicenda storica di papa Celestino V, il Santo papa di Collemaggio, e di Jacques De Molay, l’ultimo Gran Maestro dei Templari. In un finale lieto, mentre Nûr ritrova il figlio che le era stato tolto fanciullo, si aprono le porte della Basilica di Collemaggio, le porte del Perdono, al canto struggente del Pater noster.

La musica di Taralli è neo romantica, con chiare (troppe) allusioni pucciniane; evidente è l’ispirazione marcata a Turandot e alla Fanciulla del West; una musica che può essere definita più contemporanea ai compositori post pucciniani che a compositori attuali tipo John Adams. Una musica che si lascia ascoltare molto volentieri. Nella partitura di Taralli non si ravvisava lo spirito di tradizione, ma nemmeno quello sperimentale, invece troviamo un’opulenza compositiva che manca di originalità espressiva. Quello che menoma la composizione di Taralli è il libretto e la vicenda. Per quanto riguarda il libretto, passando oltre ad un discorso di metrica pressoché inesistente, si è voluto utilizzare monologhi prolissi e poco accattivanti. La vicenda, di supporto, è un ripieno di situazioni troppo distanti tra di loro. A partire dal politicamente corretto del giovane medico arabo, angariato dal Primario, che si rivela conoscitore della storia aquilana meglio di ogni altro, alla presenza di papa Celestino V (forse l’unico personaggio azzeccato, per la sua pertinenza con L’Aquila e Collemaggio in particolare), alla fantomatica presenza di Jacques De Molay, l’ultimo Gran Maestro dei Templari, il cui personaggio è decisamente fuori posto, a vicende storiche falsate, degne di quel gossip falso storico così di moda in televisione, inserite poi in un contesto drammatico come quello di un ospedale, con i suoi casi umani e pietosi di morti e feriti e alla fine l’esaltazione del perdono; tutto questo avvicendarsi di cose, eventi, personaggi, storia, fantastoria, alla fine lo spettatore fatica a raccapezzarsi.
Tutto il lavoro è impostato su colori foschi e cupi, passando attraverso la morbidezza di un ricordo lontano evocato da una semplicissima nenia araba, una delle pagine più suggestive emerse dalla partitura affidata ad un ensemble formato da pianoforte, archi, legni, ottoni, percussioni.

La regia di Roberto Recchia ha cercato egregiamente di muoversi in questa intricata vicenda, troppo ricca di simbolismi e rimandi storici, dando efficacemente risalto ai personaggi principali in una ambientazione che ricordava più una zona di guerra che non una zona terremotata, per questo ancora più drammaticamente espressa visivamente, grazie alle scene e costumi di Benito Leonori. Recchia è riuscito a sottolineare sul piano visivo gli improvvisi trapassi in chiave espressiva e la linea sottile che distingue la realtà dall’immaginazione.

Valido il cast degli interpreti, a partire dalla protagonista Nûr, interpretata dalla sempre grande Tiziana Fabbricini, non in piena forma, ma pienamente nel ruolo e di grande passionalità scenica. Molto bravo Paolo Coni nel ruolo del Frate/Celestino V, bella voce, solida e con ottimi chiaroscuri. Efficace e promettente il tenore David Sotgiu in Jacque De Molay. Bravo ma con voce che deve ancora maturare lo spagnolo David Ferri Durà nel ruolo del medico Samih. Da ricordare e d’effetto Emanuele Cordaro nel Primario e Marta Calcaterra nell’Infermiera. Ricordiamo inoltre l’ Ensemble vocale dell’Accademia del Belcanto "Rodolfo Celletti" che ha composto tutti gli altri personaggi minori dell’opera.
Molto bravo il giovane maestro Jordi Bernacèr alla guida di una Ensemble dell'Orchestra Internazionale d’Italia in piena forma espressiva.


In un Teatro Verdi pieno e con temperatura eccessiva, il pubblico ha gradito questa nuova opera, tributando al compositore un plauso.

Visto il
al Verdi di Martina Franca (TA)