Ogni cosa viva è già morta: una frase, un modo di sentire, dipingere, vivere e amare che torna come un leitmotiv nella vita e nei lavori di Egon Schiele, pittore maledetto morto a soli ventotto anni della grande influenza Spagnola del 1918. Un altro personaggio che pare fatto apposta per entrare nella galleria personale che il regista e attore Gabriele Linari va costruendo da qualche anno. Come già avvenuto per lo studio su Franz Kafka, anche qui Linari concentra il proprio percorso sulle linee-guida essenziali che caratterizzano la concezione del personaggio: la vita indissolubilmente legata alla morte, la creatività sposata al disagio e al male di vivere, l’eros che si distorce in una composizione sofferta, specchio infranto dell’anima.
Così sulla scena, più che i pochi mobili o le tele sottili di plastica leggera che si deformano, quello che si muove, che vive brevemente sono i due corpi nudi del pittore e della sua modella, solo a tratti velati da qualche indumento. Ingegnose angolature riprese come da una webcam, insieme a pochi tagli di luce dissonante (spesso arancione, un colore molto ricercato da Schiele, durante il periodo che trascorse in carcere accusato – e poi assolto – di pedofilia), sottolineano l’essenzialità che ha voluto permeare questo spettacolo e rievocano lo spirito febbrile e folle di costante ricerca che muoveva le nuove correnti artistiche d’inizio secolo, in cui il decadimento di un’epoca ancora incerta sposava le pratiche dell’introspezione e dell’analisi psicologica.
Tutto questo fa da accompagnamento ai dialoghi senza apparente logica che s’instaurano tra Schiele e la sua modella – la sensibile e duttile Ottavia Nigris che interpreta in realtà le tre donne nella vita di Schiele, Gertie, Wally ed Edith. Sono dialoghi, forme di comunicazione anche queste distorte e interrotte in cui il corpo, la sua plasticità, conta più delle parole ed è sempre il corpo della modella che in qualche modo viene smembrato, analizzato, sezionato fino a farsi composizione vivente. In queste scene la regia atipica e non lineare di Linari è stata assolutamente efficace, giocando superbamente sul registro fisico e creando quasi un’identità tra gioco dell’attore ed estasi del pittore.
Più difficile da gestire e da sentire forse la parte legata alle esperienze in carcere, alle angosce e al vissuto personale di Schiele, soprattutto nel caricarsi della tensione finale verso la morte del protagonista (ma la sua compagna, Edith, morì poco prima di lui, incinta, vinta dalla stessa influenza n.d.r.). Qui l’agonia, il delirio finale, sono rappresentati senza schermi, ma non risulta del tutto convincente il passaggio finale dove, in un momento molto teso, l’ultimo alito di vita viene reciprocamente scambiato tra i due, più e più volte, in un gioco fisico certamente efficace ma non del tutto pertinente, creando come una sfasatura e un ritardo nel tempo teatrale, che fa dei due interpreti quasi dei meri narratori, fisici sì, ma impersonali, destinati a non essere coinvolti dal momento di fatto inenarrabile e incomprensibile del trapasso di una vita umana.
Visto il
23-02-2010
al
Due
di Roma
(RM)