È fuor di dubbio che Pelléas et Mélisande di Debussy – opera che il Teatro Regio di Parma e RAI 5/RaiPlay hanno offerto in differita giovedì scorso, dopo averla registrata a fine marzo a porte chiuse – segni di fatto l'avvio del Novecento musicale.
È una partitura pienamente innovativa, che prendendo le distanze dal tardo romanticismo e da ogni genere di post-wagnerismo, si pone pure agli antipodi del Verismo. Circoscriverla però tout court nell'ambito simbolista parrebbe riduttivo, persino fuorviante: perché se tale è indubbiamente il testo di Maeterlinck, la rivoluzionaria partitura di Debussy attinge a fonti, materiali, schemi, tecniche che il panorama musicale contemporaneo, prima della sua apparizione, non conosceva. E con la rivoluzione di Pelléas tutto il nuovo secolo dovette fare i conti, abbagliato anche dal ruolo preponderante che vi occupa l'orchestra.
Sontuoso, mutevole ed aeriforme fondale sonoro sul quale si staglia un genere di declamato lirico che asseconda il testo e la sua prosodia, in un'intonazione libera e lineare, satura di invenzioni melodiche e di infinite gradazioni espressive. Non a caso, le più significative testimonianze discografiche degli ultimi cinquant'anni spiccano non tanto per gli interpreti vocali, quanto per le personali scelte del podio: Kubelik (1971) e Prȇtre (1973) per il rigore; Karajan (1978) e Abbado (1990) per la sottile ricerca di impalpabili sonorità; quanto a Boulez, ne offrì addirittura due letture antitetiche: la prima stringata ed estremista nel 1970, l'altra più soft ed estetizzante nel 1992.
Conta sopra tutto la bacchetta
Premessa opportuna, per parlare della cesellata concertazione di Marco Angius - superlativo interprete del repertorio moderno - che, a ben vedere, di bouleziano ha molto, e non solo per asciuttezza; ponendo cioè in pieno risalto il complesso ordito strumentale, facendone emergere le infinite nuances sonore e la molteplicità dei timbri, e intravedere con chiarezza il nitore delle linee melodiche. Una visione forte e coinvolgente, di rara intensità, che trova nell'Orchestra dell’Emilia-Romagna Arturo Toscanini, disposta a raggio nella platea svuotata, e nel Coro del Teatro Regio di Parma preparato da Martino Faggiani due spalle decisamente robuste.
Procedendo in ordine di entrata, Michael Bachtadze, al di là di un timbro un po' ingrato, trova per il suo Golaud delle sfumature toccanti, proponendo un personaggio sfaccettato e scenicamente compiuto. Monica Bacelli, interprete di squisita sensibilità, è una Mélisande senza manierismi infantili, né trasognate esilità, che grazie ad una linea vocale elegante e ben rifinita trova il giusto equilibrio tra melanconia e dolorosa riflessione. Vincent Le Texier tratteggia con forza la cieca, austera senilità del re Arkël, Enkelejda Shkoza impersona bene la trattenuta sentimentalità dell'anziana Geneviève. Rivelandosi un autentico baryton-martin, quale appunto richiede il ruolo di Pelléas, il canadese Phillip Addis mostra aderenza psicologica, finezza interpretativa, vigorosa ed agile musicalità. Notevole per la sua espressività l'Yniold incarnato da Silvia Frigato. Il pastore prima, il medico poi sono resi da Andrea Pellegrini.
Una coppia di originali “metteurs en scène”
Per questo Pelléas et Mélisande il tandem canadese Barbe & Doucet – artefice di regia, scene e costumi, affidando le luci a Guy Simard - ha immerso l'illusorio regno d'Allemonde in atmosfere fortemente oniriche e surreali, più che soltanto fiabesche.
Un mondo sospeso tra cielo e terra, in cui anche il castello di re Arkël e gli alberi galleggiano in aria, come in certe immagini di Magritte o di floating islands, mostrando lunghe radici che anelano la terra e l'acqua. Ed è acqua vera quella che vediamo scorrere in primo piano, a lambire i personaggi vestiti di tessuti grezzi ancorché tagliati con eleganza. Poderosa poi la carica drammaturgica, dagli sviluppi sintetici e rarefatti, con gesti appena accennati o trattenuti, ma comunque pregni di significato. Movenze e sguardi che ben rendono l'aleggiare di quella difficoltà di comunicazione, di quella incapacità di esprimere a fondo i propri sentimenti, di quel sognare vie di fuga impossibili che sovrastano e imprigionano tutti i personaggi.
Lo spettacolo, che ha inaugurato l'anno di Parma Capitale italiana della Cultura, è stato coprodotto con i teatri di Modena e Piacenza, dove speriamo di vederlo poi in scena. Con il pubblico presente, naturalmente.