Liquida, fluida, a tratti increspata da violenti marosi, altrove placidamente trascorrente: così è la partitura di Peter Grimes, approntata da Benjamin Britten nel 1945. Alimento e minaccia, fonte di vita e apportatore di morte, il mare è presenza costante in quest’opera affascinante e fortunata, che va annoverata tra i titoli più rappresentativi del teatro musicale novecentesco.
Peter Grimes è tragedia della diversità e dell’esclusione, dell’emarginazione che schiaccia chi non si uniforma alla massa, delle convenzioni sociali che soffocano ogni manifestazione riluttante a farsi ingabbiare negli schemi. Fondamentale, pertanto, è la contrapposizione tra individuo e collettività: una contrapposizione evidente già a livello scenico e visivo, e che ha come conseguenza un impiego assai esteso del canto corale, fatto oggetto di un trattamento vario e sapiente. L’eroe eponimo è un personaggio conflittuale e dolente: un pescatore che maltratta i suoi apprendisti (e forse ne abusa) e che, non volendo e non sapendo integrarsi, si candida sin dall’inizio a veder fallire il proprio progetto esistenziale. L’unica luce che rischiara la sua vita è Ellen (“My only hope depends on you. / If you take it away, what’s left”, canta il protagonista), sublime sintesi di forza, dolcezza e pietà; ma a ben vedere la figura femminile è inattingibile, e si rivela un’àncora incapace di salvare Peter dal suo ineluttabile naufragio. Una collettività compattamente avversa risospinge il pescatore oltre il perimetro della convivenza civile (“Him who despises us / we’ll destroy”), condannandolo prima all’alienazione e poi alla dissoluzione, che si consuma nel suicidio conclusivo.
Questa vicenda fosca, percorsa da riflessi morbosi e lividi, allinea momenti di straordinaria espressività soggettiva (le sortite solistiche di Peter ed Ellen), ensembles di raffinatissima scrittura (come il memorabile quartetto di voci femminili dell’atto secondo) ma soprattutto estesi pannelli di canto corale che danno evidenza sonora ad atteggiamenti collettivi di sospetto e paura, presagio e minaccia.
In un San Carlo rimesso a nuovo dopo lunghi lavori di restauro e perciò sfavillante nei suoi ori e odoroso di legno pregiato appena lucidato, Peter Grimes è stato presentato in un allestimento di alto profilo e di indubbia qualità. Merito anzitutto di un direttore, Jeffrey Tate, in grado di tenere sempre sotto controllo gli ingredienti del gioco scenico-musicale in una lettura serrata e coerente. Ottimi gli interpreti, a cominciare dai due principali: Brandon Jovanovich (un Peter Grimes tormentato ma capace di parentesi visionarie e ieratiche) e Janice Watson (limpida e incisiva nel ruolo di Ellen Orford); notevoli anche la voce e la presenza scenica di Anne-Marie Owens (Auntie) e Julie Juon (Mrs. Sedley). Precisa l’orchestra, chiamata a un impegno cospicuo e gratificata nei sei splendidi interludi strumentali; convincente la prova del coro.
Efficace e rispettosa risulta la regia di Paul Curran, che trasporta la vicenda rappresentata dal 1830 al 1945 (l’anno di composizione dell’opera), quasi a suggerire intime affinità tra l’ambientazione originale e il clima dell’epoca in cui Britten concepì il suo capolavoro. Molto interessante, infine, è la scenografia di Sergio D’Osmo, che gioca su suggestivi effetti di ombre, lucori e trasparenze e che si aggira ossessivamente tra il grigio e il verdazzurro per sottolineare l’essenza acquatica della partitura.
Napoli, Teatro di San Carlo, 30 gennaio 2009
Visto il
al
Regio
di Torino
(TO)