C'è stato un tempo in cui molte strade si incontrarono, nel mondo della musica, ad un incrocio il cui nome servì per descrivere l'evoluzione della matrice blues da cui discendeva il rock, ed accogliere stili compositivi più vari e complessi nella melodia e nell'armonia, come la musica classica ed il jazz. Era la fine degli anni '60, e nasceva il Rock progressivo, conosciuto come Prog, un movimento particolarmente generoso di talenti e di nuove frontiere, che in Italia vide fra i massimi protagonisti la Premiata Forneria Marconi, uno dei gruppi che oltre ad aver già fatto la storia della musica italiana, è stato poi ancora capace di rinnovarsi per riproporsi anche oggi, a distanza di decenni, senza operazioni-nostalgia o mere riedizioni dei tempi che furono, ma anzi reinventando proposte ed avendo ancora qualcosa di nuovo da dire.
E scriviamo questo proprio nel momento in cui seguiamo al Palapartenope la tappa napoletana di “Pfm canta De Andrè e Pfm Anthology”, il tour con cui stanno riportando sul palco l'esperienza definitiva che nel 1979 cambiò molte cose, nella musica italiana: Fabrizio De Andrè era già il poeta magnifico che non si smetterà mai di ascoltare, e loro avevano alle spalle già abbastanza storia (anche di collaborazione, dato che lo avevano già supportato ne “La buona novella” del 1970) per far dire allo stesso De Andrè che l'idea di un tour con un gruppo rock sulle prime lo spaventò, ma alla fine “la PFM mi risolse il problema, dandomi una formidabile spinta verso il futuro. […] La tournée con loro è stata un'esperienza irripetibile perché si trattava di un gruppo affiatato con una storia importante, che ha modificato il corso della musica italiana. Ecco, un giorno hanno preso tutto questo e l'hanno messo al mio servizio.”
E così, le parole da cantautore che già incantavano, furono affidate alle mani di una band che seppe arricchirle con una energia prima difficilmente immaginabile, con cascate di note ed enfasi di ritmi che hanno fatto sì che per la maggior parte del pubblico, ancora oggi, la versione più conosciuta di canzoni come Bocca di Rosa e Il pescatore, fosse quella del 1979 e di quel live, piuttosto che le originali del 1967 e del 1970. La PFM con arrangiamenti ad hoc, improvvisazioni ed invenzioni, trasformarono quei brani per farli ricadere sul pubblico dopo volteggi che parevano arditi, ma che si rivelarono vitali per dimostrare come la densità dell'ispirazione potesse rimanere ed anzi farsi più efficace, se unita ad un concetto musicale così definito. L'esperienza ebbe un forte impatto sui protagonisti, come potrete scoprire nel racconto di altri dettagli di quell'avventura nell'intervista che segue, gentilmente concessa da Franz Di Cioccio, Patrick Djivas e Franco Mussida prima della performance.
Lo spettacolo si incentra quindi sulla riproposizione di questo caposaldo della musica, ma come già detto, non si limita ad un ricordo, perché rimane in un solco di ricerca che la band continua a progettare per il prossimo futuro, dopo la recente uscita di “PFM in Classic - Da Mozart a Celebration”, in cui dopo 5.000 concerti e 43 anni di carriera, si ascolta ancora qualcosa di nuovo come l'Ouverture del Flauto Magico mozartiano o la Danza dei cavalieri del Romeo e Giulietta di Prokofiev; ma soprattutto, si ascolta una voglia di innovare e di progettare invidiabile, compreso il prossimo allestimento di una versione di scena con un ottetto che si potrà ascoltare nei teatri.
Nella prima parte del concerto, grande spazio a De Andrè, con una scaletta completa che vede in sequenza Bocca di Rosa, La guerra di Piero, Un giudice, Andrea, Giugno 73, Universo e terra, L'infanzia di Maria, Il sogno di Maria, Maria nella bottega, Il testamento di Tito, Zirichiltaggia, Volta la carta, La canzone di Marinella e Amico fragile... seguiti dalle loro Romeo e Giulietta, La luna nuova, Maestro della voce, La carrozza di Hans, e dal finale con Il pescatore, Impressioni di Settembre e Festa / Se le brescion.
Ci sono spettacoli in cui ci si lascia prendere dall'atmosfera e dal ritmo, e certamente il loro è uno di questi, ma ce ne stanno anche di quelli in cui per lunghi tratti si rimane ad osservare il rapporto che un musicista ha con il suo strumento, quando diviene un arto, un prolungamento di sé, ed anche questo è guardare la PFM: un grande esempio di come la padronanza della tecnica sia un elemento essenziale per liberare ed anzi stimolare la creatività, un rapporto immutato col pubblico che risponde emozionato, ed un raggio di azione dallo spazio amplissimo che ripropone la dichiarazione di amore e guerra del prog, ovvero che la musica esiste al di là delle etichette, e che si suona se si sa suonare e se si hanno idee. Dalla poesia al delirio da palasport, senza farsi mancare davvero nulla.
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La PFM su un divano bianco nel camerino del Palapartenope: non è facile mettere insieme tanta grandezza, storia ed innovazione, e farla coincidere con tanta tranquillità di raccontarsi ed umiltà di confrontarsi, ma le sensazioni che trasmettono sono proprio queste, ed in questa atmosfera mi rivolgo a Franz Di Coccio cercando un parallelo degli inizi, fra i loro e quelli di De Andrè:
“Come hai raccontato tu stesso, Fabrizio de Andrè, ai tempi in cui scriveva La buona novella, la mattina prendeva il treno alle 7 per andare in biblioteca a studiare su testi francesi… e voi, ai vostri inizi, dove siete andati a cercare i vostri spartiti per ispirarvi?”
“Vuoi vedere gli spartiti? Ecco, te li faccio vedere (sorridendo, indica le orecchie): questi erano i nostri spartiti!"
Franco Mussida: “Sono sempre state le puntine dei giradischi... si ascoltava e basta, non c'erano gli spartiti, non c'era niente, nemmeno da cercare...”
Patrick Djivas: “E' molto difficile per chiunque, oggi, immaginare cosa c'era a disposizione allora; faccio solo un esempio, sai come ho accordato la mia prima chitarra? Guardando una foto di Elvis Presley, ho osservato come teneva posizionate le chiavette, e le ho messe nello stesso modo. Inoltre, la qualità dei dischi era quella che era, con la ricerca da fare a mano con la puntina, una cosa molto complicata, e tuttavia da un certo punto di vista magari era un bene perché alla fine chi faceva musica, e voleva fare musica davvero, la faceva perché ce l'aveva dentro, e non fuori."
“All’inizio c’era il cantautore, che nell’immaginario collettivo doveva essere solo, con la sua chitarra, triste... poi venne una band abituata ai virtuosismi, agli assoli, alla contaminazione genetica: voi date a lui la consapevolezza della musica e lui a voi quella del dover raccontare e raccontarvi. Il bello fu anche che siete rimasti voi la PFM e lui De Andrè, ma entrambi più ricchi dentro. Forse è una domanda scontata, guardando a tutto ciò che avete fatto dopo, ma andò proprio così?”
Franz Di Cioccio: “Non è una domanda scontata, perché questa cosa Fabrizio la sentiva molto forte dentro di lui; non aveva un vero progetto, come per i dischi precedenti ed anche i successivi: lui voleva trovare una collaborazione per fare un disco, e per la prima gli capitò un gruppo che gli disse
Ne capiva le potenzialità, perché avevamo fatto insieme La buona novella, anni prima, e quello era il suo disco preferito perché in quel disco c'era una pasta di anima, di musicalità, di preziosità che abbiamo messo in quel suono, quell'usare le orecchie di cui parlavamo prima, quel 'prendi una band come ieri erano i Quelli ed oggi la PFM', scegli quel suono, e quel suono diventa poi una cosa che ti può caratterizzare in un lavoro.
Fabrizio ha rilasciato molte dichiarazioni per dire che questa cosa gli aveva in un certo senso salvato la vita, perché lui non voleva più continuare, non trovava uno stimolo adeguato, mentre questa esperienza, il modo di arrangiare, di andare su un palco, di scoprire un pubblico (anche perché lui non aveva mai avuto un pubblico di una certa dimensione, a parte alcune serate che aveva fatto, mentre nel tour si andava nei palasport, con tutto quello che poi ne conseguiva, esendo epoca di forti contestazioni...), ebbene quella cosa gli cambiò la vita perché scoprì all'improvviso la sua musica: mentre prima tutti cercavano di capire i suoi testi, da quel giorno lui ha scoperto la sua grande musicalità, ed infatti in seguito ha percorso sempre la via dei testi, dove ovviamente è rimasto uno dei migliori poeti che abbiamo avuto, ma anche la musica è diventata una delle parti importanti, tanto è vero che ha fatto delle scelte musicali anche molto forti.
“Voi siete sempre stati abituati alla platea internazionale, prima e dopo avete fatto tantissimi concerti all'estero: quanto era conosciuto De Andrè fuori dall'Italia? Vi chiedevano di suonare quei pezzi, dopo il tour del 79?”
Franco Mussida: "Diciamo che la sua musica l'abbiamo portata soprattutto noi. Lui aveva un'amicizia molto importante con Leonard Cohen, ma soltanto personale, non si sono mai mischiati i mercati; il mercato estero per qualsiasi cantautore italiano, non soltanto per Fabrizio, è sempre stato un mercato estremamente difficile, tanti han tentato la difficile scalata soprattutto in quello americano. L'unico mercato un pochino aperto per Fabrizio, e lui lo sapeva, era la Germania. Ma in generale, lui è sempre stato il cantautore italiano per antonomasia; oltretutto, proveniva da una tradizione che alle origini non era neanche italiana ma francese, con altre successive influenze, e che poi ha trovato la sua strada italiana."
Patrick Djivas: "E poi noi non abbiamo mai lavorato per il circuito italiano, all'estero. Abbiamo sempre lavorato per il circuito americano in America, e così via… quindi non avevamo nessun rapporto con le comunità italiane all'estero, mentre Fabrizio era ovviamente conosciuto soprattutto all'interno delle comunità italiane."
“Come è cambiata la comunione fra il sopra ed il sotto del palcoscenico, se è cambiata, dagli anni '70? Una volta forse gli steccati erano più delineati, da una parte quelli che rimanevano nella staticità di un genere che potrebbe riferirsi ad esempio a Canzonissima, dall'altra coloro che seguivano altri movimenti, più impegnati ed approfonditi nella musica e nei testi: oggi, invece, secondo voi i giovani che verranno qui stasera, sono gli stessi che magari guardano X-factor? E se c'è questa contaminazione, essa è positiva e fino a che punto? Significa assenza di impegno, oppure è una contaminazione che poi serve ad avvicinarli alla musica più strutturata?"
Franco Mussida: “E' un problema di interesse dei ragazzi, nel senso che io non escludo che ci siano ai nostri concerti persone che ascoltano X-factor, il problema è la pienezza della proposta musicale: quella di X-factor, per restare nell'esempio, ha un cliché che rimanda alla tradizione della canzone, perché si ripropongono grandi successi nazionali ed internazionali, è un lavoro sul catalogo della canzone, non c'è niente di straordinario se non il fattore-gara, che per noi non è un elemento positivo.
Per lo stesso motivo non ci è mai piaciuto Sanremo, e non ci andremo mai in gara, perché il meccanismo della gara, ovvero di dire chi è meglio fra Morandi e la Carrà, fra Beethoven e Šostakovič, come si fa anche nel calcio, beh, è una cosa di cui non se ne può più. Ma noi siamo ottimisti sui giovani che verranno questa sera, pensiamo che abbiano la giusta sensibilità (e ci sono tanti genitori ad esempio che hanno fatto un lavoro prezioso, splendido, all'interno delle famiglie...)"
Franz Di Cioccio: "La cosa più bella dal palco è proprio quella di vedere i giovani, è bellissimo, e penso che se De Andrè è così amato (e questo spettacolo che facciamo è uno spettacolo che il pubblico ama molto), è proprio perché hanno scoperto i dischi a casa, li hanno ascoltati, gli sono piaciuti, e così vengono a vedere “fisicamente” quella musica, perché questa musica ti prende fisicamente, se sei uno spettatore non puoi non saltare. Ed allora ti rendi conto che anche in quelle canzoni c'è la stessa dinamica, la stessa energia di altri artisti magari più vicini alla tua generazione, perché in realtà la musica non ha generazioni, è una questione di come questa cosa viene vissuta e viene proposta. Per noi la cosa più bella è vedere i genitori ed i figli che ballano insieme una serie di pezzi; perché è difficile farlo con altri ambiti musicali, e quindi vuol dire ci sono delle fasce artistiche e musicali che prescindono dalla contemporaneità di una moda; quando noi pensiamo di esprimere la contemporaneità è perché ci divertiamo a fare musica, senza pregiudizi né preconcetti, possiamo suonare qualsiasi cosa e la suoniamo quando pensiamo noi: abbiam fatto un disco che si chiama "in classic"...”
“Ecco, proprio a questo volevo arrivare…”
"...che aiuta ad avvicinare i ragazzi alla musica classica, ma aiuta ad avvicinare anche la musica classica ai ragazzi: non è solo i ragazzi che vanno "incontro", ma anche la musica classica, attraverso un lavoro importante di divulgazione e di educazione alla musica, alla bellezza della musica. Abbiam fatto un lavoro durato 4 anni proprio perché ci sentivamo di fare questo gesto nella contemporaneità, perché avevamo già suonato la musica classica insieme al rock, però questa è un'altra cosa, un po' come De Andrè più la PFM...! è un'altra cosa...”
“Avete qualche ricordo particolare di Napoli?”
Franco Mussida ride: "Le bombe!"
Patrick Djivas: "Ricordo perfettamente il concerto con De Andrè, qua, è stato una cosa indimenticabile. Sul disco c'è una poesia di Fabrizio che parla proprio di questo, è stata scritta nel camerino del palazzo dello sport di Napoli, ero da solo con lui in quella occasione, gli altri due erano fuori e non riuscivano neanche a ritornare indietro, perché c'era polizia ovunque, immagina quasi la guerra civile, e Fabrizio scrisse questa poesia che parlava delle cose incredibili che stavano succedendo fuori."
Franco Mussida: “Ma quella poesia era proprio dedicata a te…; il primo concerto al Mediterraneo è stata veramente una cosa splendida perché non immaginavamo un affetto così sentito, una vicinanza così forte... poi andò via anche la corrente, e non riesco a capire come continuo a trovare gente che si ricorda di quel concerto e di quell'episodio! Non so quanta gente ci stava, ma deve essere stata veramente tantissima…”