Londra 1958 - Londra 2015. Un balzo temporale ha separato due vicende parallele che si sono rivelate essere una medesima storia, altrimenti declinata. Esteriorità diverse in identiche interiorità. Sulla scena, di Andrè Benaim, un pannello incolore ciclicamente attendeva di essere riempito dalle tessere del mosaico dell’esistenza. Il percorso, di logica semplicità, verso “The pride” ha coinciso con la ricerca che ognuno, maschio o femmina, eterosessuale o gay, deve compiere su se stesso. L’orgoglio di cui parla Alexi Kaye Campbell è quello che inerisce l’identità, l’essenza dell’Uomo; mentre il soggetto protagonista è l’amore, sentimento che poco ha da spartire con la sfera morale, quando è declinato come sinonimo di accettazione e di coraggio.
Un tema sviluppato dalla regia in splendido unisono con l’autore, in toni mai urlati tuttavia sempre aventi la forza di un grido: di denuncia, di aiuto, di gioia o di dolore; mai sfacciato, capace di travalicare le situazioni per giungere alla sostanza e colpire il bersaglio degli animi e delle coscienze. Del resto la regia era già scritta nello splendido testo, a saperlo leggere con l’intelligenza, ideativa e scenica, denotata da Luca Zingaretti, mai caduto nella banalità, mossosi su piani di elevatezza non zavorrata da stereotipi, con leggerezza densa di rimandi, dando vita a un unicum testo/regia di scorrevole compattezza e perfetto equilibrio.
I dialoghi passati da una voce all’altra, hanno trovato rispondenza nelle dissolvenze incrociate, applicate sapientemente al mezzo teatrale mediante l’ingresso in scena, al termine di ogni quadro, di un personaggio-prologo del quadro successivo. Gli episodi avevano come soggetto persone diverse, accomunate dagli stessi nomi di battesimo. Ben presto ha fatto capolino la ricorrenza dei caratteri, si sono uditi gli echi che li legavano e si è scorto un medesimo testimone - l’acquisizione della consapevolezza - passato metaforicamente di mano in mano durante quella corsa costellata da ostacoli psicologici che è la vita. Oliver, il magnetico Maurizio Lombardi, è uno scrittore, di libri per ragazzi, di chat, di articoli per un giornale. È una figura complessa di omosessuale dichiarato, che vive sentimenti schiettamente pavidi, illuso e disilluso da rapporti sfociati in abbandoni. Al contrario Philip, l’affascinante Luca Zingaretti, è in perenne conflitto interiore ma conserva la forza di dire no, di chiudere le porte alle sue spalle. Sylvia, l’eclettica Valeria Milillo, è una donna “matta come un cappellaio”, che ha dimenticato se stessa e che dagli altri è stata dimenticata. Alex Cendron dà consistenza agli antagonisti. Un cast che ha indistintamente fornito prova magistrale di trasformismo camaleontico e commovente intensità interpretativa.
Anche chi crede di non avere dubbi è assalito dagli interrogativi, perché “la vita è una terribile festa mascherata, dove non si distingue la verità dalla bugia. È una specie di apparenza, che sfuoca i particolari”, afferma Campbell. Nel testo/regia si ravvisa distintamente la “bellezza che porta fuori dal tempo” vissuto dai personaggi e il nostro di spettatori. Nell’ultima scena, svolta all’interno del dipinto che all’esordio era stato posto sopra uno scaffale, l’atmosfera, mantenutasi sospesa per l’intera durata dello spettacolo, ha proiettato nell’impalpabilità dei sentimenti, sotto la pioggia, dalla funzione purificatrice, di palloncini caduti dall’alto verso il basso, andati cioè in senso inverso nondimeno emananti luci luminose. Si abusa spesso del termine poesia, ma in questo caso spendiamo il sostantivo a piene mani, nella vastità del suo significato.