E' un bel debutto "in terra natìa" quello di Maurizio Lastrico e soci al Politeama Genovese.
Fa sempre piacere vedere un teatro pieno di pubblico (platea, galleria, posti in piedi, per questo attesissimo sold out realizzato in poco meno di tre giorni, e su tutte le repliche).
C’è un respiro fisico del pubblico che aspetta, con il giusto orgoglio del caso, i “suoi” comici, i guitti della città, quelli che col tempo sono passati – come hanno scritto i giornali locali – da Cavalli marci a Cavalli di razza. Tutto questo devono averlo sapientemente intuito e messo in conto, Lastrico & C., che costruiscono uno show ben calibrato su tempi e pezzi comici, in cui il legame con le origini è ben vivo e presente: il legame con la città certo, ma anche con il mondo della televisione, di cui è figlio il loro primo successo.
In questo rapporto stretto con le “madri matrigne” (Genova e la TV) si giocano, a parere di chi scrive, tutti i punti di forza e di debolezza dello spettacolo.
Va detto preliminarmente che i “cavalli di razza” sono tutti, appunto, degli autentici purosangue e il loro stile individuale inconfondibile, la tecnica, l’intuito, ma anche la loro amalgama contribuiscono a dare allo spettacolo una vis comica costante e affilata: sempre giusti i tempi comici, lanciata bene la battuta, alto il livello di energia. Rispetto, però, alla TV, appunto, i nostri eroi si cimentano in una cornice narrativa esile e non del tutto azzeccata: l’idea di riproporre la “TV di una volta: gli sketch, le canzoni, il cabaret” (peraltro non definibile proprio originale) sconta appunto la difficoltà di incasellare e incanalare il pezzo comico, perlopiù portato sul palco, in un genere, un format, una qualunque connotazione di tutto ciò che vuol far ridere e può stare davanti a una telecamera o a un pubblico in carne e ossa. Alla TV pare ci si voglia ribellare, sempre, qualche volta, forse mai: così l’occasione di poter sforare con agio i rapidissimi tempi dello sketch televisivo non sempre è raccolta nelle sue opportunità di sfida iconoclasta e l’ironia si limita alla (pessima) costruzione di un discorso pubblico di Salvini, o ai paradossi della TV del dolore, ma è sempre l’ironia che un figlio adolescente può esercitare su una madre, e nulla più.
Diverso è il discorso per quanto riguarda l’approccio alla città. Qui il saper essere davvero genovesi tra i genovesi si sente e ha efficacia: interessanti ed esilaranti gli intermezzi di Enzo Paci in platea, a far alzare tutto il pubblico, commentando il fastidio che può suscitare uno spettatore molesto in un altro, ben conscio dei suoi diritti di pagante.
Qui, sulla genovesità, su un modo asciutto, ma inesorabile, di fare comicità (con uno stile ormai inconfondibile come quello dei cantautori) gioca un ruolo forte Lastrico, che ha il merito di arrivare alle persone con estrema immediatezza (indimenticabile il monologo con il racconto di Rocky IV in genovese e i Russi che lo tifano contro Ivan Drago, un po’ come i “Savonesi che tifano Juventus”), ma tutti in fondo danno un contributo azzeccato e importante: un po’ come se sulla città e i difetti dei suoi figli, l’avarizia, la scontrosità, ma anche la ritrosia a chiedere un bis o a fare un applauso in più, si potesse scherzare di più e più liberamente che sulla televisione.
Bella prova di regia per Luca Bizzarri, il cui privilegio di giocare in casa era qui gravato dall’onere di stare dall’altra parte del palcoscenico, grande prova per gli attori, spettacolo comunque forte e meritevole di essere visto; anzi speriamo di rivedere i nostri eroi sul palco presto e con testi nuovi, magari con un pizzico di spirito dissacrante in più, cui la loro esilarante comicità può fare senz’altro da carburante e motore.