Il teatro non ha controindicazioni; il teatro è un modo privilegiato per conoscere noi stessi, il mondo che ci circonda, gli altri, uno spazio dell’anima in cui fare i conti con i ricordi, le paure, le nostre e le altrui debolezze, un luogo di incontro e confronto dal quale sia l’attore sia lo spettatore non emergono mai esattamente come prima, il luogo bello della mutazione possibile.
Questo è il mio nome è uno spettacolo frutto di un progetto per l’accoglienza e l’inserimento di alcuni giovani richiedenti asilo e rifugiati all’interno del territorio del Comune di Reggio Emilia, ideato e portato avanti con pervicace passione da Monica Morini e Bernardino Bonzani che ne hanno curato anche la regia. Sul palco la prorompente energia vitale di Ogochukwu Aninye, Djbril Cheickna Dembélé, Ousmane Coulibaly, Ezekiel Ebhodaghe, Lamin Singhateh che, attraverso una serie di quadri apparentemente slegati tra loro e col semplice ausilio di pochi arredi scenici, ripropongono al pubblico, concretizzandoli in brevi episodi di vita, i propri sogni e le proprie speranze, tenacemente mantenuti vivi anche attraverso il deserto, il mare, i vari tipi di respingimento che essi hanno dovuto affrontare. Ogni sorta di patetismo è bandito da uno spettacolo che, nella sua levità vuole essere quasi un ponte gettato sul Mediterraneo, un ponte che invita a un dialogo sorridente e spontaneo fra le due sponde.
La vera protagonista delle pièce è e rimane la parola, una parola scarna ed essenziale, ma al contempo magica ed evocativa che si inserisce in quel filone dell’oralità che da sempre ha caratterizzato il bacino del mare nostrum e che accomuna gli aedi greci a quelle tradizioni non scritte che Amadou Hampâté Bâ chiama gli archivi letterari, storici e scientifici del’Africa. La parola è ciò che ci definisce, ciò che ci consente di comunicare con gli altri; la sua più alta incarnazione poi è quella che si concretizza nel nostro nome, un nome che i ragazzi alla fine dello spettacolo possono tranquillamente proclamare perché ormai si trovano in un luogo che li ha accolti, così come fece a sua volta Odisseo con i Feaci, quello stesso Odisseo che, di fronte alla violenza antiumana di Polifemo, aveva dichiarato di chiamarsi Nessuno.
‘Noi siamo qui, ci vedete?’ gridano gli attori sul palco, un grido che vuole sfondare il muro dell’invisibilità, in nome di quell’uguaglianza fra tutti gli esseri umani già proclamata all’interno dei valori etici elaborati da quell’humanitas che, dal Circolo degli Scipioni in poi, dovrebbe essere base essenziale del nostro essere occidentali, ma che, guarda caso, viene proclamata con forza anche all’interno di una tradizione pluricentenaria elaborata proprio in Mali. ‘Io ti vedo, tu mi vedi?’ ed ecco che ogni frontiera, ogni distinguo cadono nel dimenticatoio.
Quanto mai appropriata la collocazione dello spettacolo da parte del Teatro Ponchielli nelle vicinanze del 27 gennaio, giornata della memoria, una memoria che ha come scopo ultimo proprio quello di non ripetere gli orrori del passato, una memoria che ci impone di vedere e di non ignorare, una memoria che ci rammenta, come disse Primo Levi, che ‘l’angoscia di ciascuno è la nostra’.