Da solo sul palco, una sedia e un tavolino, due bottiglie e un bicchiere, più un microfono con asta. Si presenta così Pippo Delbono nel suo monologo ironico, a tratti quasi comico, ma più spesso riflessivo, intimo, sofferto Racconti di Giugno, nel quale l’attore-personaggio intreccia ricordi della sua vita a momenti di spettacoli da lui interpretati (oltre che scritti e diretti) in passato.
Un allestimento scenico che può ingannare e far pensare a cornici narrative da cabaret televisivo per via del microfono e di alcune battute di caratura minore, anche se mai volgari o gratuite. Le coordinate attorno le quali si dipana il suo discorso sono quelle classiche: una madre cattolica (Pippo si raccomanda di non andare in giro a dire tre parole che apprenderemo durante lo spettacolo perché sua madre non deve sentirle…), un paese della Liguria, l’amore per un amico, lo chiama così, dedito alle droghe, l’oratorio dove faceva il chierichetto… E, come trait-d'union, Giugno, il mese in cui è nato, in cui ha trovato e perso un grande amore, in cui è morto il padre, mese di cambiamenti, di svolta, di riflessioni e di rinascita. Poi, dopo la morte del suo amico, l'incontro con il teatro (non un qualunque, ma l'Odin...) come terapia, non solo psicologica ma anche fisica, e la scoperta tarda della sieropositività. Questo racconto tragico ma mai pietistico, al contrario, composto e privo di rabbia verso il prossimo, è inframmezzato da alcune parti monologanti dei suoi (altri) spettacoli. E a mano a mano che la fisicità dell’attore emerge in tutta la sua dirompenza, ci si accorge di quanto la scenografia abbia fuorviato. Il teatro di Delbono è un teatro incentrato sull’attore, non solamente un teatro di parola, ma di messa in scena anche della parola, propria e altrui (Pasolini, Sarah Kane, ma anche Prevert e Shakespeare) che passa attraverso la messa a nudo di se stessi, che non è un atto di narcisistico intellettualismo perché Delbono non racconta ma recita, non dice ma mostra, non spiega ma interpreta. Non parla ma vive. Il teatro allora diventa un mezzo etico e squisitamente politico, di ricerca. Ricerca a posteriori del senso di una vita, dove le cose sembrano capitare per caso, ma anche di una ricerca a priori, etica, nella riflessione e nell’onestà intellettuale con cui indaga le sovrastrutture culturali, proprie e altrui, e che lo inducono, quando incontra il sordo e muto Bobò, internato in un manicomio, a rapirlo e riportarlo alla vita, facendone compagno di scena (e alla fine dello spettacolo sale anche lui sul palco a prendersi gli applausi). Larvatamente venato di un’impercettibile ma inconfondibile misoginia che ricorre nella compiaciuta irriverenza con la quale Pippo descrive i personaggi femminili che incontra nella sua vita, quella misoginia che tanto l’attore quanto l’autore probabilmente considerano canale privilegiato per comunicare col pubblico omosessuale che in sala è ben più presente del solito, perché lo spettacolo è ospitato in una rassegna di teatro omosessuale, Racconti di Giugno offre un florilegio intelligente degli spettacoli di Delbono e anche della sua vita (o almeno di quella di Delbono personaggio e attore). Ci chiediamo solamente perché il monologo debba essere mortificato da un’etichetta come quella di Teatro Omosessuale che gli sta stretta. Delbono è un attore la cui omosessualità, sieropositività e buddismo (le tre parole interdette al pubblico per tema della madre…) fanno sì parte della sua persona ma non per questo limitano il suo teatro a queste categorie di pubblico (chissà quanti buddisti in platea…). Anzi la forza del suo teatro sta proprio nell’universalità dei temi e dei sentimenti che affronta partendo dal suo particulare che sa prescindere dispiegando le ali del Teatro. Ma poi pensiamo che ogni occasione sia buona se offre del vero teatro ed è certamente il caso di questo spettacolo e del suo autore-attore molto apprezzato in patria e all’estero, dove il suo lavoro, siamo certi, non soffre di etichetta alcuna.
Roma Teatro Belli 3 e 4 giugno 2008
Un allestimento scenico che può ingannare e far pensare a cornici narrative da cabaret televisivo per via del microfono e di alcune battute di caratura minore, anche se mai volgari o gratuite. Le coordinate attorno le quali si dipana il suo discorso sono quelle classiche: una madre cattolica (Pippo si raccomanda di non andare in giro a dire tre parole che apprenderemo durante lo spettacolo perché sua madre non deve sentirle…), un paese della Liguria, l’amore per un amico, lo chiama così, dedito alle droghe, l’oratorio dove faceva il chierichetto… E, come trait-d'union, Giugno, il mese in cui è nato, in cui ha trovato e perso un grande amore, in cui è morto il padre, mese di cambiamenti, di svolta, di riflessioni e di rinascita. Poi, dopo la morte del suo amico, l'incontro con il teatro (non un qualunque, ma l'Odin...) come terapia, non solo psicologica ma anche fisica, e la scoperta tarda della sieropositività. Questo racconto tragico ma mai pietistico, al contrario, composto e privo di rabbia verso il prossimo, è inframmezzato da alcune parti monologanti dei suoi (altri) spettacoli. E a mano a mano che la fisicità dell’attore emerge in tutta la sua dirompenza, ci si accorge di quanto la scenografia abbia fuorviato. Il teatro di Delbono è un teatro incentrato sull’attore, non solamente un teatro di parola, ma di messa in scena anche della parola, propria e altrui (Pasolini, Sarah Kane, ma anche Prevert e Shakespeare) che passa attraverso la messa a nudo di se stessi, che non è un atto di narcisistico intellettualismo perché Delbono non racconta ma recita, non dice ma mostra, non spiega ma interpreta. Non parla ma vive. Il teatro allora diventa un mezzo etico e squisitamente politico, di ricerca. Ricerca a posteriori del senso di una vita, dove le cose sembrano capitare per caso, ma anche di una ricerca a priori, etica, nella riflessione e nell’onestà intellettuale con cui indaga le sovrastrutture culturali, proprie e altrui, e che lo inducono, quando incontra il sordo e muto Bobò, internato in un manicomio, a rapirlo e riportarlo alla vita, facendone compagno di scena (e alla fine dello spettacolo sale anche lui sul palco a prendersi gli applausi). Larvatamente venato di un’impercettibile ma inconfondibile misoginia che ricorre nella compiaciuta irriverenza con la quale Pippo descrive i personaggi femminili che incontra nella sua vita, quella misoginia che tanto l’attore quanto l’autore probabilmente considerano canale privilegiato per comunicare col pubblico omosessuale che in sala è ben più presente del solito, perché lo spettacolo è ospitato in una rassegna di teatro omosessuale, Racconti di Giugno offre un florilegio intelligente degli spettacoli di Delbono e anche della sua vita (o almeno di quella di Delbono personaggio e attore). Ci chiediamo solamente perché il monologo debba essere mortificato da un’etichetta come quella di Teatro Omosessuale che gli sta stretta. Delbono è un attore la cui omosessualità, sieropositività e buddismo (le tre parole interdette al pubblico per tema della madre…) fanno sì parte della sua persona ma non per questo limitano il suo teatro a queste categorie di pubblico (chissà quanti buddisti in platea…). Anzi la forza del suo teatro sta proprio nell’universalità dei temi e dei sentimenti che affronta partendo dal suo particulare che sa prescindere dispiegando le ali del Teatro. Ma poi pensiamo che ogni occasione sia buona se offre del vero teatro ed è certamente il caso di questo spettacolo e del suo autore-attore molto apprezzato in patria e all’estero, dove il suo lavoro, siamo certi, non soffre di etichetta alcuna.
Visto il
al
Cuminetti
di Trento
(TN)