Il teatro della riscrittura si misura col delicato compito di separare un testo da un contesto per affidarlo alla contemporaneità, operando inevitabilmente una traduzione (nel senso proprio di “trasporto”) delle categorie culturali e del senso; impresa che richiede una particolare motivazione della scrittura e un’intuizione originale di lettura del testo classico. Diversamente l’opera rivisitata rischierebbe di ridursi a banale quanto superflua verniciatura modernizzante della narrazione e dei suoi personaggi, mentre un’operazione autentica di riscrittura dovrebbe usare la fenomenica del presente, i suoi linguaggi, per meglio indagare nelle pieghe meno esplicite del testo originario.
In questa prospettiva lo studio di Peter Verhelst sulla figura di Riccardo III prende certamente a riferimento il testo di Shakespeare, ma limitandosi all’intelaiatura del plot e all’identificazione dei personaggi; viceversa la collocazione storica e lo sviluppo narrativo ricorrono come elementi del tutto marginali. Verhelst concepisce Riccardo come figura emblematica del rapporto malato tra individuo e potere; dunque amorale, opportunista, dagli atteggiamenti flessibili e ambigui, molto più simile a un politico dei nostri tempi che al malvagio protagonista scespiriano. Coerente ad un testo che separa la psicologia dalla storia, la regia crea un doppio sistema di segni: i personaggi della corte sono personificazioni atemporali della dimensione sociale dell’uomo, dunque vestono in modo contemporaneo; Riccardo esibisce un completo verde quasi da avanspettacolo, estraneo ad una particolare dimensione storica, ed esegue la parola con distacco declamatorio, antirealistico, estetizzante, ad assecondare la ricercata bellezza del testo nella preziosa traduzione di Christian Marcipont, ben attento a riprodurre il sistema stilistico di opposizione tra prosa e versi. Al contrario le figure della madre e della sposa, interrelate a Riccardo in una dimensione oscura e privata sono più caratterizzate nel linguaggio e nella dimensione cronologica; le loro persone, benché osservate attraverso una breve finestra del tempo, veicolano dolore universale.
L’essenziale scenografia riproduce in modo funzionale l’idea del progetto, separando dietro due grandi arcate ogivali uno spazio “intimo” – il letto di disperazione della madre che diventa edipicamente il torbido talamo di Riccardo – da quello delle relazioni pubbliche e degli intrighi, mentre un ampio scalone che invade il proscenio fino alla platea stilizza lo spazio della corte e permette al regista di far muovere i personaggi con notevoli effetti di sintesi figurativa. Eccellente la prova di Laurent Poitrenaux che dà vita a un protagonista multiforme, inquieto e spregiudicato ma mai troppo volitivo, a tratti capriccioso e incostante come un moderno Caligola; in opposizione all’espressività rigorosa e intensa di Anne Bellec, la duchessa-madre, che simmetricamente apre e chiude la rappresentazione nel punto della nascita e della morte di Riccardo, come la “duplice bocca” evocata nel testo.
Va resa infine un’annotazione necessaria sullo spazio fisico: pare inverosimile che il Teatro Nuovo, tra i più importanti stabili italiani d’innovazione, debba patire una sala priva d’insonorizzazione, ciò che rende continuamente precario lo spazio acustico della messa in scena. Sarebbe allora normale che le istituzioni, che generalmente provano uno speciale entusiasmo a pronunciare la parola “cultura”, s’impegnassero – non soltanto con slanci di simpatia – in un progetto di ristrutturazione del teatro per sostenere, come merita, quella missione di straordinaria semina culturale che il Nuovo ha concretizzato con tenacia negli ultimi anni.
Teatro Nuovo - Napoli, 30 ottobre 2007
Visto il
al
Nuovo
di Napoli
(NA)