Già una volta Damiano Michieletto, prima che in questo Rigoletto verdiano che apre a Venezia la stagione autunnale del Teatro La Fenice, aveva ambientato un'intera opera fra le mura di un manicomio.
Era il Sigismondo di Rossini, al ROF 2010: ma quella che allora ci sembrò una soluzione pretestuosa – ed anche monocorde - in questo spettacolo, nato quattro anni fa alla Dutch National Opera di Amsterdam, viene svolta assai più in profondità, e con un maggiore, significativo spessore drammaturgico.
Rigoletto, psicologicamente ambivalente già in partenza, è uscito di senno poiché, nel fallire il piano di vendetta verso il Duca, ha causato invece la morte di Gilda. Ed è oppresso dal pensiero di quanto l'ossessiva protezione verso la figlia abbia avuto un tragico peso nell'infausta vicenda. Recluso nella sua stanza d'ospedale, in preda al delirio, assillato da tragici spettri, rivive in un continuo, ossessivo flashback quanto accaduto. E' una soluzione drammaturgica assai forte, che ha molte frecce al suo arco. Si può accettare o no; ma in scena innegabilmente funziona alla grande, per almeno tre motivi.
Molti i pregi, pochi i difetti
Primo, vi è in questo avvincente impianto registico un prezioso corollario di preziosi dettagli, grandi e piccoli. Come la descrizione, sui video del fondale, dell'infanzia di Gilda: la dolorosa perdita della madre, la reclusione nella sua cameretta, l'anelito alla libertà, i tumulti del cuore espressi attraverso fanciulleschi disegni.
Come il via vai infinito di inquietanti presenze aliene - il Duca, Gilda, Sparafucile, Maddalena, i cortigiani – che entrano ed escono attraverso muri sbrecciati, come larve inquietanti. Come il frenetico svellere, da parte di Rigoletto, delle assi del pavimento per poi furiosamente scavare una buca in terra. Sono davvero molti, e fanno perdonare certi usuali zeppe sceniche quali l'uso di maschere antropomorfe, lo spargimento di coriandoli, il letto a mezz'aria, le bambole in scena o l'abbondanza di piaghe sanguinanti.
Secondo motivo, il team radunato da Michieletto lavora alla grande, contribuendo largamente alla pregnanza del contesto visivo: è formato dal suo scenografo di fiducia, Paolo Fantin, dal costumista Agostino Cavalca e dall'efficiente light designer Alessandro Carletti.
Terzo, la parte del buffone di corte ricade su un interprete - Luca Salsi – che giganteggia in scena. Interprete possente nel fiato e variegato nei colori, valido fraseggiatore, se vocalmente sconta qualche eccesso di foga febbrile - specie verso il finale - sulla scena però dispiega un Rigoletto di fortissima valenza, convulso e tragico, intriso di fragile e dolorosa umanità. E perfettamente aderente allo spirito registico di questo allestimento.
Voci di diverso spessore
In compenso, non ci convince molto la Gilda di Claudia Pavone, voce qui tendenzialmente univoca e fissa, non sempre a suo agio nelle agilità, e nell'insieme povera di mezze tinte; mentre il lucente Duca di Ivan Ayon Rivas brilla sì, quanto a luminosa vocalità, baldanza e scattante giovanilismo; ma non riesce a renderne appieno né la mascolina volubilità, né la protervia, né lo sprezzante cinismo. Mattia Denti è un tenebroso, solido Sparafucile; Valeria Girardello, una Maddalena avvenente, però di modesta consistenza musicale.
Efficiente comprimariato formato da Gianfranco Montresor, Monterone; Armando Gabba, Marullo; Marcello Nardis, Borsa; Matteo Ferrara e Rosanna Lo Greco, i Conti di Ceprano; Carlotta Vinchi, Giovanna; Emanuele Pedrini, un usciere; Sabrina Mazzamuto, il paggio. Il ruolo del Coro diretto da Claudio Marino Moretti, affiatato e preciso, è un po' mortificato dal forzato ricorso a maschere e mascherine, che soffocano l'afflato del canto.
Sulla concertazione, l'ombra di Toscanini
La bacchetta di Daniele Callegari consegna una concertazione con pregi e difetti. Mostra estrema attenzione allo strumentale, tutto un ribollire di suoni cupi e metallici, con piani sonori ben strutturati, attente sfumature dinamiche, pungenti stilettate orchestrali; rivelandoci così tutto l'intimo, raffinato ordito della partitura verdiana. Di converso, adotta tempi così vorticosi ed incalzanti – da metronomo toscaniniano – sfiorando talora il parossismo. Condotta che non avvantaggia di certo il palcoscenico, con gli interpreti costretti a rincorrerlo, a cercar il fiato, a metter da parte ogni aspirazione all'espansione lirica.