Una coraggiosa operazione di filologia musicale ha permesso di ricostruire in buona parte l’aspetto assunto dalla celeberrima partitura in occasione dell’esecuzione a Napoli nel 1718.
Un’opera in viaggio
Dopo il debutto londinese del 1711, coronato da straordinario e memorabile successo, il Rinaldo di George Friedrich Händel venne ripreso nella stessa capitale britannica (nel 1717 e nel 1731), ad Amburgo (nel 1715 e nel 1723) e a Napoli (nel 1718). Nella prassi operistica settecentesca le riapparizioni non sono mai riproposizioni identiche, ma implicano più o meno estesi adattamenti suggeriti dalle caratteristiche dei nuovi interpreti, dal mutamento del gusto, dalle consuetudini locali. L’esecuzione napoletana, in particolare, richiese una cospicua ristrutturazione attuata attraverso la scomparsa quasi totale dell’elemento magico, l’accentuazione dei conflitti amorosi, l’introduzione di due ruoli comici (Lesbina e Nesso) e, soprattutto, la sostituzione e l’aggiunta di numerosi pezzi chiusi. Fino a tempi recentissimi, l’assetto musicale del Rinaldo partenopeo è rimasto misterioso. Il ritrovamento di un manoscritto con quindici arie, nel 2012, ha permesso di gettare nuova luce su questo interessante episodio. Giovanni Andrea Sechi, musicologo giovanissimo ma già scaltrito, ha fatto il resto, identificando i numeri di varia provenienza e paternità che i diversi cantanti innestarono nella partitura. Il quadro scaturito dalle sue ricerche è uno straordinario patchwork: accanto a un significativo numero di arie di Händel (intatte o adattate), a Napoli si ascoltarono pagine appositamente composte da Leonardo Leo e brani preesistenti importati da opere di Francesco Gasparini, Giuseppe Maria Orlandini, Giovanni Porta, Domenico Sarro e Antonio Vivaldi.
Data l’importanza del titolo e della piazza teatrale, il recupero martinese risulta di grande interesse. E tuttavia non si può fare a meno di sottolineare come il pubblico del festival non sia stato messo nella condizione di godere appieno della pregevolissima proposta. Se tutti (o quasi) avranno riconosciuto Händel, pochissimi potranno dire di aver distinto al semplice ascolto Orlandini da Porta. Forse uno schema dei pezzi chiusi con le relative attribuzioni nelle note di sala avrebbe offerto una mappa per orientarsi preliminarmente. E sarebbe stato così disdicevole proiettare in qualche modo sul palcoscenico, senza disturbare l’azione, nomi e incipit delle arie in corso d’esecuzione, visto che proprio nel susseguirsi di autori e stili diversi consisteva l’attrattiva principale della performance?
La musica piace, la regia non convince
A guidare dal podio la riemersione di Rinaldo dalle acque del Golfo provvede Fabio Luisi, che per l’occasione presta eccezionalmente la sua bacchetta al repertorio antico. Il gesto sempre elegantissimo e misurato del maestro mette in luce la trama raffinata e i dettagli più preziosi delle musiche primo-settecentesche, ma l’effetto complessivo risulta a tratti poco incisivo, forse anche per il limitato volume sonoro espresso dall’ensemble La Scintilla nell’ampio vaso del cortile di Palazzo Ducale. Si apprezza però la meticolosa cura riservata alla calibratura dei tempi, non soltanto per quanto riguarda le arie ma anche all’interno dei recitativi, resi con una speciale flessibilità in funzione dei diversi climi espressivi.
Nel title role si muove con bravura Teresa Iervolino, chiamata a restituire le complesse sfaccettature che caratterizzavano l’arte del famoso castrato Nicola Grimaldi, primo interprete del personaggio händeliano e, molto probabilmente, responsabile del traghettamento dell’opera da Londra a Napoli. Bravissima nell’agilità, nel furore e nel languore è Carmela Remigio, cupa e sensuale Armida. Loriana Castellano si fa apprezzare nei panni di Almirena per il bel colore della voce e la precisione dell’intonazione.
A destare molte perplessità, in questo Rinaldo policromo, è la messinscena ideata da Giorgio Sangati. Basandosi sul trito parallelismo tra divi del XVIII secolo e star della musica dei nostri tempi, il regista – con la complicità del costumista Gianluca Sbicca – presenta i protagonisti sotto le spoglie di grandi icone degli anni Ottanta: Freddie Mercury (Rinaldo), Cher (Armida), Madonna (Almirena), Elton John (Goffredo), i Kiss (Argante) e David Bowie (Eustazio). La guerra tra cristiani e pagani diventa così uno scontro tra «pop-rock» e «dark-metal». L’idea, invero gratuita, produce conseguenze vistose sul gioco scenico. Chiamati a una sorta di iperespressività, i cantanti sono costretti ad accentuare movimenti e gesti con esiti talvolta grotteschi. Sangati, d’altronde, è convinto che a Napoli i personaggi dell’opera siano pervasi da «una certa vena buffa»: a suo dire, «il raffinato humor della versione londinese (?) si mescola a una comicità partenopea più esplicita (?)». Un’intuizione, questa, tutta da dimostrare, vista la rigida divisione retorica che governa il sistema spettacolare dell’epoca. Fatto sta che gli interpreti agiscono sempre sopra le righe e si adattano a un’atmosfera complessivamente farsesca, finendo per apparire parodia di sé stessi.
L’ambientazione da concerto rock di Alberto Nonnato sposa l’idea di fondo della rappresentazione, ma belle e suggestive risultano alcune invenzioni, come il gioco di voliere trasparenti e illuminate che incornicia l’aria ornitologica di Almirena nel primo atto. Non dispiace, infine, l’idea di mantenere le scene comiche in versione parlata, data la perdita delle musiche: l’azione dei ‘buffi’ (i bravissimi Simone Tangolo e Valentina Cardinali), pur ridotta a parola e movimento, serve a ricordare la presenza del registro stilistico basso all’interno della performance napoletana, nel senso non della presunta commistione invocata dal regista, ma di un accostamento di livelli all’epoca assai gradito in omaggio a un pervasivo ideale di varietas.
Spettacolo: Rinaldo
Visto a Palazzo Ducale di Martina Franca.