Lirica
ROBERTO DEVEREUX

Mariella sempre Regina

Mariella sempre Regina

Roberto Devereux, uno dei capolavori di Gaetano Donizetti, non ha avuto lo stesso successo delle altre due opere della trilogia Tudor, Maria Stuarda e Anna Bolena, a cui per scrittura musicale e approfondimento psicologico è addirittura superiore. Negli ultimi anni l’opera è sempre più presente nei cartelloni internazionali e, nonostante le difficoltà della parte protagonista che richiede oltre ad agilità belcantista la capacità di reggere la tensione drammatica con vertiginosi salti di registro, alcune grandi cantanti come Montserrat Caballé ed Edita Gruberova l’hanno frequentata assiduamente nel corso della carriera.
Quattro personaggi animano l’intrigo ma è la Regina Elisabetta, anziché Roberto Devereux come il titolo lascerebbe supporre, la protagonista e la “catastrofe” non è la morte di Devereux quanto la tragica presa di coscienza di Elisabetta, costretta a rinunciare sia all’amore che al trono.

A Genova l’opera, assente da tanti anni, fa un ingresso trionfale in repertorio con un cast stellare in una nuova produzione firmata da Alfonso Antoniozzi, apprezzato baritono che da qualche anno si sta dedicando con successo alla regia. Lo spettacolo è  tradizionale e leggibile come si conviene a un’opera di soggetto storico e funziona nel mettere a nudo, ovvero smascherare, il dramma interiore della regina. Il regista sfrutta il tema della maschera in una corte dove “tutto è teatro e niente è come appare”:  i cortigiani hanno il volto coperto da maschera argentee ed Elisabetta è la maschera di sé stessa, prigioniera in abiti preziosi ma rigidi come sculture, dal volto coperto di bianco che nasconde ogni espressione e una gestualità bloccata e innaturale. Solo alla fine apparirà per quello che è: una vecchia decrepita dai capelli bianchi che si trascina sulla scena condannata a una “lucida follia“.

Funzionale l’impianto scenico di Monica Manganelli, una piattaforma circolare rialzata posta al centro della scena (citazione del teatro elisabettiano) sui cui vengono posizionati  intorno a un trono paraventi mobili dai disegni stilizzati che abbozzano gli interni di un castello. Nel corso dell’opera  la scena si destruttura e le pannellature che coprono il fondo della scena  si scostano per svelare le gradinate di un tribunale. Lo sfondo si tinge di rosso per preludere all’esecuzione di Devereux e assume una desolazione cinerea nel finale su cui calano le luci delle attrezzerie del Carlo Felice a sottolineare che “la tragedia è finita”. Sempre pertinenti le luci di Luciano Novelli nel mettere in rilievo lo scavo psicologico dei protagonisti come nell’evocare la tinta cupa della corte dei Tudor. Curatissimi e affascinanti i costumi di Gianluca Falaschi dai broccati scolpiti nell’oro, determinanti nell’evocare la sontuosità barocca della corte Tudor.

Di assoluta eccellenza  il cast, dominato da una Mariella Devia che rende un tributo a Donizetti, al belcanto, a Genova e soprattutto a sé stessa per come ha saputo gestire la propria carriera. L’Elisabetta rappresentata sulla scena è come deve essere: vecchia e stanca, irrigidita nei movimenti e nell’espressione del volto; ma la voce sembra sfidare il tempo, limpida e senza un’incrinatura, dalle colorature nitide e un registro acuto sempre sotto il pieno controllo al punto che il finale elettrizza, anzi, di più, sconvolge. Ma non è solo tecnica, l’Elisabetta della Devia è intensa e credibile e lascia percepire dietro l’apparenza regale e controllata una lacerazione umana ed universale.
Non da meno Sonia Ganassi, una Sara particolarmente intensa per temperamento e per la voce dalle sensuali bruniture, capace di rivaleggiare con la “Regina” anche sul terreno del belcanto. Stefan Pop è un Devereux dalla voce estesa e possente che gli consente di venire a capo con le (numerose) insidie del ruolo; se nella prima parte gli si può obiettare una certa genericità (sfavorito dal confronto con le due belcantiste), ha trionfato nel terzo atto conquistando pieno favore di pubblico. Del Duca di Nottingham di Marco Di Felice si apprezza  l’articolazione nitida e l’allure aristocratica. Tutti adeguati i ruoli minori, in particolare Alessandro Fantoni nel ruolo di Lord Cecil e Claudio Ottino in quello di Sir Gualtiero. Concludono il cast  Matteo Amanino  (un paggio) e Loris Pulpura (un familiare).

Equilibrata e leggera  la direzione di Francesco Lanzillotta, sempre attenta a non prevaricare le voci. I tempi piuttosto lenti, se funzionano per evocare il languore malinconico che sottende la vicenda, risultano meno efficaci sul piano drammatico dove avremmo voluto un piglio e un’incisività maggiori. Precisa l’orchestra e ottima la prova del coro del Carlo Felice preparato da Pablo Assante.

Alla prima calorosi e prolungati applausi, sia durante che alla fine dello spettacolo, a tutti gli artefici di una produzione che vale davvero un viaggio a Genova.

Visto il 17-03-2016
al Carlo Felice di Genova (GE)