Lo spettacolo "Roma Caput Mundi", scritto e diretto dal giovane drammaturgo Giovanni Franci, riprende le fila dal precedente lavoro, che ricostruiva con i toni della cronaca uno dei più efferati delitti: l’omicidio di Luca Varani.
Lo spettacolo Roma Caput Mundi, scritto e diretto dal giovane drammaturgo Giovanni Franci, riprende le fila dal precedente lavoro, L’effetto che fa, agghiacciante mise en espace che ricostruiva con i toni della cronaca uno dei più efferati delitti che, in tempi recenti, abbiano sconvolto la capitale: l’omicidio di Luca Varani.
In questo caso, la cronaca viene messa da parte, tutto diventa narrazione, ma i protagonisti non sono propriamente frutto di fantasia: infatti, mantengono i nomi dei loro interpreti (Valerio, Riccardo e Fabio) e rappresentano tre ventenni come tanti, che si possono incontrare (o anche frequentare) in una periferia urbana senza regole, dove vige inevitabilmente la legge del più forte. La Capitale è ancora al centro dell’ennesimo viaggio al termine della notte, in cui germinano semi di violenza, omofobia e odio verso gli immigrati.
Le stagioni dell’odio
Due dei tre protagonisti si sono diplomati nello stesso istituto alberghiero, vivono situazioni famigliari complicate e sono entrambi disoccupati. Il terzo è un ragazzo della cosiddetta “Roma bene”, iscritto all’Università, che però trascorre le sue giornate nella più completa apatia. Un crollo nervoso lo porterà a subire un ricovero psichiatrico presso una clinica, dove le esistenze dei tre personaggi si intrecceranno indissolubilmente.
Esistenze raccontate dai tre interpreti (Valerio Di Benedetto, Riccardo Pieretti, Fabio Vasco) e scandite, sul piano narrativo, dal susseguirsi di tre stagioni (estate, autunno, inverno), ciascuna corrispondente a un termine del motto fascista Credere, obbedire, combattere: un segno evidente dell’attuale diffusione, soprattutto in un contesto di disagio giovanile, di riferimenti culturali propri della destra più estrema.
Ci si chiede se la responsabilità di questo stato di cose sia attribuibile ad alcuni fattori scatenanti e la risposta del testo, interpretato in chiave psicanalitica, sembra indirizzare verso alcune ipotesi quali la fragilità giovanile, il rapporto con la famiglia d’origine e la sessualità, paure e fobie generalizzate.
L’utilizzo, forse eccessivo, del microfono nel prologo dello spettacolo rende meno diretto l’accesso nella claustrofobica e violenta realtà quotidiana dei protagonisti, ma l’allestimento si caratterizza anche per una sorta di didascalica vivacità, grazie alle elaborazioni digitali di Marco Aquilanti e a un disegno luci più positivo e “illuminato”, in contrasto con i sentimenti che agitano il vissuto interiore dei personaggi.