Lirica
ROMEO ET JULIETTE

L'AMORE IN GABBIA

L'AMORE IN GABBIA

La Fondazione Arena di Verona ripropone l'allestimento di Roméo et Juliette che aveva debuttato lo scorso anno e che si spera diventi un classico areniano per due motivi: la storia ha un senso maggiore vista a Verona a pochi passi da dove si suppone abbia avuto luogo, lo spettacolo è di tale bellezza e significato da essere uno dei migliori visti qui, uno spettacolo che coniuga le necessità del pubblico estivo areniano con la raffinatezza visiva e originali spunti di lettura di una vicenda stranota.

La scena di Edoardo Sanchi rimanda vagamente a un campo di calcio, diviso in opposte tifoserie: a sinistra i Capuleti, a destra i Montecchi, i cui nomi campeggiano su striscioni che contornano il palco. Al centro una struttura tondeggiante che si apre in due metà formando una specie di teatro elisabettiano ma che, secondo noi, rimanda piuttosto a una gabbia, visti gli altri elementi scenici che parimenti richiamano il senso della prigione e della privazione della libertà: fisica, mentale, sentimentale.
I costumi di Silvia Aymonino sono splendidi per inventiva, mescolando in uno stile senza tempo stoffa, piume, specchietti. Ovviamente una divisione per colori per identificare le due famiglie rivali.Le luci di Paolo Mazzon sono essenziali nell'economia dello spettacolo, bellissime e assai evocative.

La regia di Francesco Micheli non punta sullo scontro fisico tra le famiglie: già troppe volte abbiamo visto la tragedia ridotta a duelli tra bande di giovani rivali. Qui il contrasto è piuttosto concettuale, ideale, insito nel profondo: quelle differenze che possono diventare barriere insormontabili, come le gabbie di acciaio che vengono forzatamente fatte indossare a Giulietta e ne impediscono i movimenti; oppure le gabbie che costituiscono la sua camera.
Ci sono i giovani ovviamente, fin dall'inizio, che assistono al dispiegarsi di uno striscione con una veduta di Verona che si spacca in due, a metà. Giovani metropolitani che si dispongono in vari punti della platea e, battendo le mani, iniziano il ritmo che poi si trasforma nell'ouverture suonata dall'orchestra. Gli stessi giovani d'oggi che assistono muti dalle terrazze al consumarsi della tragedia nel quinto atto, così rendendo la vicenda un fatto universale e reale per ciascun spettatore.

Durante l'ouverture la vicenda è simbolizzata e riassunta da due adolescenti che si arrampicano su una scala a libretto rossa e si scambiano un timido bacetto: la vicenda è intima, delicata. Poi arrivano i cantanti, più maturi: ma il senso della vicenda resta lo stesso. I sentimenti sono in primo piano, sempre. Un amore casto, totale forse proprio per questo. Romeo entra in scena con una strana macchina ibrida, quasi da film di fantascienza: le ruote di trattore, l'elica sul motore, le ali di pipistrello che si allargano e si accendono di lampadine, tubi puntati verso l'alto che sprigionano fiamme di fuoco. L'amore di Giulietta è contagioso, gioia e giovinezza che si espandono verso gli altri. I primi ammiccamenti e gli sfioramenti degli innamorati avvengono tramite una grata metallica: Giulietta dentro, Romeo fuori, in alto sopra di loro il padre-padrone.

Il secondo atto si apre con un'immagine indimenticabile: decine di lumini tremolano sugli spalti più alti dell'Arena, rimandando alle fiammelle dell'amore ma anche alle luci dei cimiteri (ad anticipare l'esito drammatico della vicenda). Indimenticabile anche la presenza delle due colombe bianche, liberate da Giulietta da una gabbia, che si inseguono a lungo nell'aria, proprio come due innamorati. Giulietta è sul balcone, sopra una delle gabbie metalliche di cui si diceva. Romeo si arrampica con una scala rossa: un'immagine che evoca immediatamente un fiotto di sangue su una lama d'acciaio. Romeo allunga una mano, Giulietta la sfiora: questo basta per dire un mondo, per giurarsi amore eterno. Oltre la vita, oltre la morte.

Il terzo atto è dominato da due grandi bandiere contrapposte coi colori delle due famiglie, che si ripetono nei costumi di coro e figuranti, costumi simili nelle fogge e dissimili solo nei colori (quella che pare una differenza insuperabile in realtà è poca cosa). Il regno di Frate Lorenzo è una strana “gabbia” di vetri colorati e sbarre di ferro, forse l'interno di una bottiglia piena di fiori bianchi e piante come una serra (una bottiglia contiene il veleno che caratterizza il finale). I poteri sono isolati e isolano chi li esercita: il potere familiare del padre, il potere spirituale del frate, il potere politico del duca. Tutti e tre sono dentro strutture che li ingabbiano, in modi diversi. I frati hanno il volto coperto da maschere; li scoprono dopo la cerimonia nuziale che assume così un valore iniziatico.
Il duello avviene dentro una sfera, una gabbia anch'essa, un mondo chiuso da cui non si può uscire: non una scena di violenza fisica e reale, quanto simbolica. Uno scontro che ha il senso dell'inevitabilità.
Nel prosieguo Giulietta è accompagnata da comparse che paiono gocce di sangue e poi è chiusa in un abito metallico su ruote come una statua in processione. Nel finale tornano i lumini, a contornare il marmo dove giace Giulietta: una panchina rossa, come il sangue. Come l'amore. Ombre si allungano ai lati, giovani assistono muti dalle terrazze. Romeo e Giulietta fuggono via, leggeri e veloci, in mezzo alla platea. Verso un nuovo mondo. Il mondo della possibilità dell'amore: senza gabbie.

Fabio Mastrangelo dirige con mano sicura, garantendo adeguato supporto ai cantanti e tempi giusti pur se il suono non è prodigo di colori e la forza narrativa emerge soltanto dalla regia invece che anche dalla partitura.

I due protagonisti sono credibili vocalmente, scenicamente, attorialmente. Straordinaria la prova di John Osborn, voce squisitamente lirica, canto capace di emozionanti sfumature come anche di squillanti acuti. Aleksandra Kurzak ha voce di bel colore, la linea di canto è sorvegliata e le consente di non forzare in acuto; del soprano si è apprezzata in particolare l'espressività del canto. I ruoli di contorno sono essenziali in questa opera; nel presente allestimento i comprimari sono corretti pur senza particolare evidenza. Eufemia Tufano è Stéphano, sempre preso in giro dagli altri. Elena Traversi è una Gertrude materna e protettiva con l'abito di piume di pavone. Francisco Corujo è un Tybalt dalla voce possente, come ampio e potente è il Mercutio di Artur Rucinski. Con loro Paolo Antognetti (Benvolio), Nicolò Ceriani (Paris), Dario Giorgelè (Grégorio), Giorgio Giuseppini (Frère Laurent), Enrico Marrucci (Capulet) e Deyan Vatchkov (Le Duc de Vérone). Coro preparato da Armando Tasso, corpo di ballo diretto da Maria Grazia Garofoli per coreografie di Nikos Lagousakos.

Pubblico numeroso e particolarmente partecipe, prolungati applausi a scena aperta e un trionfo nel finale, in particolare per i due protagonisti. 

Visto il
al Arena di Verona (VR)