La grande mostra monografica romana dell'autunno 2007 al Palazzo delle Esposizioni forse non ha contribuito a far conoscere al grande pubblico italiano Mark Rothko ma resta mostra splendida da grande capitale europea accompagnata da un catalogo encomiabile.
Rothko era un ebreo russo nato nel 1903 e giunto da bambino negli Stati Uniti. Ma non al centro della vita sociale e culturale: bensì Portland, Oregon, città quasi di frontiera al vertice di una costa solitaria e selvaggia, spazzata dal vento. La prima grande personale a New York è del 1944, dunque non giovane. L'affermazione alla fine degli anni Cinquanta con la committenza dei Seagram murals e la personale al Moma, seguita dalle retrospettive di molti musei europei che lo hanno decretato come uno dei maggiori pittori del Novecento.
Riconoscibile per il colore severo e pieno di silenzio, Rothko voleva che nella sua pittura ci si perdesse, rinunciando a pretendere un'esperienza razionale o cognitiva per attingerne una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente.
Su questo si incentra il testo di John Logan, inedito in Italia e tradotto da Matteo Colombo, ambientato nello studio del pittore, dove arriva un giovane allievo che è lì per lavorare e non per imparare. A lui Rothko chiede di mettersi davanti a una tela e di descriverla, partendo proprio dall'impatto visivo e cromatico. Rothko pretendeva criteri rigidissimi per l'esposizione delle sue opere: illuminazione mai diretta né eccessiva, brevissima distanza fra i quadri, altezza contenuta a cui dovevano essere appesi “per evitare che volassero per l'aria”, distanza breve da cui guardarli al punto da non avvertire più con lo sguardo i margini del dipinto e tanto da smarrirsi dentro di essi.
Da qui comincia lo spettacolo. Il pittore è in abito da lavoro, tuta blu chiazzata di vernice rossa. Il giovane è in formale giacca e cravatta con le spallone tipiche dell'epoca. Siamo alla fine degli anni Cinquanta, al momento della committenza delle tele per il ristorante newyorkese Four seasons, la più vasta committenza murale dopo la Cappella Sistina. Il testo procede per momenti isolati lungo un paio di anni in cui la vita quotidiana resta fuori ed estranea e il dialogo si concentra sulla pittura e sul dipingere. Momenti separati da istanti di buio in cui il teatro si riempie di rumori metropolitani tipicamente americani. Per coinvolgere il pubblico, ci sono virate “sentimentali”, come il racconto del trauma infantile del giovane quando, in un giorno di neve, ha trovato i genitori a letto assassinati a coltellate da uno sconosciuto: il bianco fuori, il rosso dentro, la sorellina da allontanare e proteggere. Ma Rothko non vuole essere né amico, né confidente, né terapeuta, né insegnante: solo un capo. Troppo preso da sé stesso e dalle sue certezze che ripete ossessivamente come per convincersene egli stesso.
Regia, scene e costumi sono di Francesco Frongia. Le pareti bianche sono tele non dipinte che svelano l'intelaiatura di legno; nove tubi al neon doppi pendono dall'alto e vengono accesi in un momento per dimostrare come la luce possa ferire i dipinti che sono i preparatori per i murales Seagram, forse il vertice pittorico dell'artista: quel rosso variato, respirante, mai fermo, chiuso da forme imperfettamente geometriche che sembrano galleggiare, quel colore che ha già le premonizioni di un colore severo e immoto, diviso da una lunga striscia che, simile a un orizzonte ininterrotto, percorre l'intera lunghezza della tela, un colore che via via perderà profondità e spessore e sarà steso dato soltanto sulla superficie.
Lo studio, perfettamente illuminato da Nando Frigerio, è presentato in modo realistico con pentole e barattoli di vernice rossa. Lo scontro generazionale è un gap incolmabile: “parlo una lingua che la tua generazione non conosce”. “C'è una tragedia in ogni pennellata e il colore esprime un oggetto con una tensione del campo cromatico”. Rothko, espressionista astratto, ha spazzato via il passato, ma non riesce a farsi da parte quando arriva la pop art e si suicida alla vigilia della vernice della personale alla Tate Gallery e prima dell'ultimazione della cappella di Houston, Texas. “I barbari sono alle porte” urla, “ma alla gente piacciono” ribatte il giovane. È in discussione il ruolo e il senso dell'arte: non sempre si vuol essere feriti da un dipinto, anche una rasserenante natura morta ha dignità. Ma Rothko insiste che la serietà è l'unico valore e non ne vede nei contemporanei che dipingono fumetti e lattine di zuppa, “arte temporanea, usa e getta”. Rothko rivendica l'unica arte possibile come quella “che fa pensare e ti ferma il cuore e non quella che crea immagini carine”.
Rothko è artista intellettuale, ascetico, controllato come Apollo, mentre Pollock sarebbe Dioniso. Qui si rivela irascibile nella tensione emotiva e negli sbalzi d'umore di Ferdinando Bruni, accanto al deciso e intenso giovane di Alejandro Bruni Ocaña, il cui vago accento spagnolo costituisce un valore aggiunto per rendere la società americana di quegli anni. “Essere civili è sapere dove ci si colloca nella società. I giovani devono studiare: per superare il passato bisogna conoscerlo”. Pur con qualche semplificazione sul ruolo dell'allievo e del maestro, resta scolpito negli occhi e nel cuore degli spettatori il momento della stesura della vernice rossa sulla tela con la musica di sottofondo, l'energia che si libera dalle pennellate e la descrizione dell'opposto colore nero: “sei stato pesato sulle bilance dell'inferno e trovato inadeguato”. Quel nero che, a un certo punto, ha inghiottito il rosso di Rothko. Tutti i suoi rossi. E, con essi, la passione e il battito del cuore.