«Oh! Perché non mi hai guardato? M’avessi tu guardato, certo m’avresti amato». Così canta la protagonista poco prima della conclusione della Salome di Richard Strauss. E ha ragione. Se Jochanaan (Giovanni Battista) avesse avuto la debolezza (o il coraggio) di rivolgere lo sguardo alla fanciulla fatale, si sarebbe senz’altro innamorato di lei. Anche il profeta lo sa. Dietro il muro dei suoi rifiuti sdegnati, sotto la superficie apparentemente inscalfibile nella sua resistenza tetragona, serpeggia il timore di restare sedotto, la tentazione di amare e, di conseguenza, di rinunciare a essere tempio vivente dell’unico Dio. Perché, in fondo, Salome è una storia d’amore. Un amore morboso e funesto che può compiersi solo nella morte, e che della morte ha il sapore amaro e l’ineluttabilità.
Per la nuova messinscena del Teatro di San Carlo di Napoli, dove il Musik-Drama in un solo atto mancava da diciassette anni, il regista Manfred Schweigkofler sceglie di raccontare questo amore con gesti asciutti ed efficaci. Nella rilettura dello scenografo Nicola Rubertelli, il palazzo di Erode diventa la reggia-bunker di un re-capoclan, popolata di loschi individui (gli abiti sono firmati da Katrin Dorigo) e dominata da un’atmosfera opprimente e dal cattivo gusto. Non manca il grande specchio inclinato, ingrediente irrinunciabile degli allestimenti d’oggidì, qui chiamato a riflettere le immagini proiettate sul pavimento. In questo contesto senza valori e senza ideali, Schweigkofler accompagna Salome in una terribile metamorfosi. All’inizio la figlia di Erodiade è una ragazza viziata e capricciosa, che si ostina a pretendere ciò che è proibito per il solo gusto di infrangere le regole e di esercitare il suo potere (un potere già esiziale, che travolge e calpesta la vita di Narraboth). L’incontro con il Battista, però, trasforma la fanciulla in una donna. Il corpo del profeta le rivela la sua femminilità per mezzo del desiderio. L’incendio che subito divampa, abbagliante e rovinoso, non può che sfociare nella follia e nella distruzione. La bocca di Giovanni diventa simbolo e ossessione. Del profeta essa è sineddoche ed essenza: Jochanaan all’inizio si manifesta esclusivamente come voce, la voce che annuncia il Messia, che a Napoli risuona dalle profondità di un sotterraneo chiuso da una grata. Non è un caso, perciò, che Salome desideri spasmodicamente quelle labbra consacrate e voglia violarle, possederle. La bocca è la prima cosa a cui la fanciulla pensa quando le viene porta la testa recisa («Ah! Non volevi ch’io ti baciassi la bocca, Jochanaan!»), un bacio è il suo ultimo gesto. Schweigkofler non si tira indietro di fronte alle cupe simbologie che percorrono l’opera, ma allo stesso tempo non indulge a effetti esorbitanti e insistenze gratuite: la danza dei sette veli (coreografata da Valentina Versino e arricchita dall’intervento di sette ballerine) si dipana con sensualità sobria e soffusa su ritmi ipnotici e cullanti che fanno pensare ora a un’altalena, ora a una ghigliottina; l’erotismo della scena finale, nella quale il sangue del capo troncato tinge la candida veste di Salome come in una tragica prima notte di nozze, viene restituito senza edulcorazioni ma con senso della misura. L’effetto complessivo è rispettoso del testo e, insieme, del pubblico.
Alla riuscita dello spettacolo contribuisce in maniera determinante la bacchetta di Gabriele Ferro, capace di guidare l’orchestra sancarliana in una performance decisamente riuscita e di tenere insieme una partitura complessa, dal respiro mutevole. La sua direzione, che procede con passo vario senza perdere coesione, sortisce effetti sonori cangianti e preziosi. Notevolissima la prova di Annemarie Kremer, perfettamente a proprio agio nei panni di Salome sia sotto il profilo vocale che dal punto di vista drammatico. Kim Begley tratteggia egregiamente il continuo oscillare di Erode tra lussuria, presagio e paura, prestando al personaggio una vocalità forse non esuberante ma precisa ed espressiva. Ieratico, solenne e profondo è il canto di Markus Marquardt (Jochanaan), mentre Natascha Petrinsky (Erodiade) sa alternare con perizia e con disinvoltura gli accenti dello scherno e del terrore. Una menzione speciale merita il timbro puro di Wookyung Kim (Narraboth). A completare il cast provvedono Jurgita Adamonyte (il paggio di Erodiade), Robert Holzer e Nicolò Ceriani (due Nazareni), Christian Hübner e Francesco Musinu (due soldati), Javid Samadov (un uomo di Cappadocia) e Antonio Mezzasalma (uno schiavo). Impeccabili nel canto e sulla scena i cinque ebrei (Karl Ebner, Enzo Peroni, Cristiano Olivieri, Rouwen Huther, Karl Huml), che Strauss coinvolge in un episodio caricaturale marcato da cliché antisemiti ma musicalmente raffinatissimo, tutto giocato sul contrasto tra le iniziali enunciazioni solistiche e la magistrale chiusa contrappuntistica.
Lirica
SALOME
L'amore fatale di Salome al San Carlo di Napoli
Visto il
18-11-2014
al
San Carlo
di Napoli
(NA)