Venezia, teatro La Fenice , “Šárka” di Leoš Janáček e “Cavalleria Rusticana” di Pietro Mascagni
UN DITTICO INSOLITO
In linea con altri abbinamenti inconsueti proposti in passato, la Fenice presenta un dittico in cui si confrontano due opere assolutamente diverse, che hanno come unico denominatore la brevità e l’essere state composte a due anni di distanza: la rara Šárka di Janáček, per la prima volta rappresentata in Italia, e la popolare “Cavalleria Rusticana“ di Pietro Mascagni.
In Šárka, ambientata in un contesto arcaico ispirato a fonti mitologiche slave, si assiste al conflitto ancestrale fra il mondo matriarcale delle amazzoni e il potere maschile dell’ordine costituito dei nobili guerrieri. L’indomita Šárka s’innamora suo malgrado del suo antagonista, il valoroso Ctirad, ma non potendosi sottrarre alla vendetta prevista dal codice tribale, dopo averlo ucciso si suicida, immolandosi sulla pira per congiungersi nella morte all’amato.
L’opera è stata composta nel 1887, su libretto del poeta romantico Julius Zeyer che attinse a un antico mito boemo trascritto in epoca medievale da Dalimil, ma fu sottoposta a numerose revisioni e venne rappresentata per la prima volta solo nel 1925. Trattandosi della prima opera lirica composta da Janáček, la scrittura musicale riflette ancora l’influenza di Dvorak e Smetana, ma si avvertono alcune cadenze della lingua parlata che si ritroveranno nei capolavori della maturità e l’orchestrazione nervosa privilegia frammenti tematici, rifuggendo il facile melodizzare. Più a livello tematico che musicale, si ravvisano analogie con l’universo wagneriano: l’innamoramento ineluttabile fra i due nemici ricorda Tristano, le amazzoni guerriere le valchirie, lo scudo e la mazza di Trut all’origine del conflitto le armi magiche della Tetralogia e l’olocausto finale accomuna Šárka a Brunilde.
Ermanno Olmi firma le regie di entrambe le opere della nuova produzione, con scenografie di Arnaldo Pomodoro e costumi di Maurizio Millenotti.
Per suggerire la tinta cupa dell’opera, Šárka è ambientata nelle viscere di una montagna, dove un’immensa radice di un albero secolare s’incunea fra pareti bronzee pervase da incrostazioni e bagliori metallici adatte ad evocare un medioevo arcaico e barbarico. La scena buia è su due livelli e scale simmetriche, illuminate da fiaccole, conducono al sepolcro della principessa Libuse, una statua velata che custodisce nella cripta scavata nella roccia le armi magiche. L’opera, marcata da eccessiva concisione drammatica, è piuttosto statica e pressoché priva di approfondimenti psicologici: risulta quindi giustificabile un approccio che privilegi l’impatto visivo e scenografico (un barbarico con tocchi liberty), con movimenti scenici frontali e simmetrici e costumi coerenti con l’ambientazione mitologico-barbarica. L’atmosfera cupa si rischiara quando Sárka, donna crudele e sanguinaria trasfigurata dall’amore, tolto l’elmo che le copre un occhio scopre una chioma d’oro e uno sguardo d’angelo o quando le amazzoni, candide come monache, depongono con inedita delicatezza foglie lievi come farfalle sul cadavere di Ctirad.
Nella parte protagonista Christina Dietzsch è un’amazzone credibile per agilità e bellezza, ma anche la voce ben controllata contribuisce alla riuscita di un ruolo decisamente drammatico, dove prevalgono declamato e canto di sbalzo. Andrea Carè sfoggia voce ampia e morbida adatta al nobile Ctirad a cui sono riservati momenti di effusione lirica. Mark Doss è un Principe Premysil convincente per la voce profonda e una linea di canto curata consona all’autorità dolente del personaggio. Lumir, l’altro ruolo tenorile, è stato sostenuto da Shi Yijie.
Cavalleria è parsa meno riuscita, in quanto manca una comunione d’intenti fra una regia statica ed essenziale, quasi oratoriale, e un’interpretazione vocale decisamente sopra le righe che enfatizza gli aspetti più esteriori del verismo.
Tutto avviene in primissimo piano (quasi a negare la terza dimensione), la scena fissa vede una scabra spiaggia di rocce bianche che si stagliano contro un immenso fondale, illuminato da una luce mediterranea. Assistiamo sulle note del preludio a una scena d’amore fra due innamorati che costituisce una sorta di antefatto. Due scale vengono posizionate sulla scena per consentire alle comparse di manovrare cavi e pulegge (all’inizio l’iterazione di queste azioni risulta incomprensibile) con cui poter issare un immenso crocifisso scolpito nel ferro che esce dalle viscere della terra di cui solleva le zolle, immagine forte della “Mala Pasqua” che esprime, come le donne vestite di nero in atteggiamento sottomesso, un sud atavico impregnato di un cattolicesimo opprimente e ineludibile.
La Santuzza di Anna Smirnova ha voce importante e poderosa, ma non sufficientemente controllata e piuttosto gutturale. Enfasi e volume vanno a scapito del fraseggio e della varietà di accento, ma anche del personaggio, appiattito da un canto di forza che occulta la tragedia interiore.
Walter Fraccaro, se pur dotato di notevoli mezzi, risolve Turiddu con un canto spiegato, tutto forte e sempre uguale, che non fa trasparire alcuna dolcezza e la recitazione scontata non aiuta alla definizione del ruolo. Discreta la Lola di Elisabetta Martorana dalla buona disinvoltura scenica, Silvia Mazzoni è una Lucia dalla voce estesa e sicura . Nel ruolo di Alfio, Angelo Veccia convince per l’interpretazione asciutta e capacità di fraseggio.
Bruno Bartoletti ha diretto due opere stilisticamente lontane di cui ha ben sottolineato le diversità. Della prima ha messo in evidenza con grande finezza e cura dello strumentale un’orchestrazione opulenta e ricca di colori, ravvisandone altresì l’originalità in nuce e i cambi di dinamica propri del Janáček maturo; all’insegna della tradizione la lettura di Cavalleria, trascinante e carica di intensità teatrale, con una marcata inclinazione al melò.
Ottimo il Coro della Fenice, preparato da Claudio Marino Moretti, per la capacità di adeguarsi a stili diversi con grande capacità tecnica ed espressiva; le pagine corali di Šárka, cupe e potenti piuttosto che elegiache intrise di malinconia slava, sono state fra i momenti più riuscite della serata.
Buon successo di pubblico, che ha applaudito calorosamente tutti gli interpreti, mostrando un evidente interesse per l’inedita proposta.
Visto a Venezia, teatro La Fenice, il 18/12/2009
Ilaria Bellini
Visto il
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La Fenice
di Venezia
(VE)