Nel nuovo testo di Emanuele Aldrovandi – al debutto in questi giorni al Teatro della Cooperativa di Milano – si riconoscono le peculiari caratteristiche della sua drammaturgia, quali ad esempio l’atmosfera pulp, con luci e suoni che introducono e assistono lo spettatore durante lo svolgersi della vicenda sul palcoscenico, e, naturalmente, l’identificazione dei personaggi attraverso un elemento che li contraddistingue (in questo caso, il loro aspetto fisico).
In un futuro non troppo lontano la crisi economica - invece di finire – si è aggravato e ha reso l’Europa un continente di emigranti. I cittadini europei, alla ricerca di un futuro migliore, sono costretti a espatriare illegalmente: la chiusura delle frontiere è ormai una realtà diffusa. Il mezzo più diffuso, fra i tanti, per intraprendere questo (necessario?) “viaggio della speranza” è il container: i clandestini salgono a bordo, pagano mille dollari alla partenza e altri mille all’arrivo, senza sapere dove verranno scaricati.
I protagonisti della vicenda sono tre migranti: il Robusto (Daniele Pitari, in un ruolo dall'ambiguità di intenti,che gli si addice parecchio), la Bella (Luz Beatriz Lattanzi, che rasenta la perfezione negli sguardi, nei tempi e nel pronunciare le proprie battute) e l’Alto (Marcello Mocchi, il quale parte leggermente in sordina per giungere gradualmente a un impeto di realistico livore sul finale).
Tutti e tre hanno qualcosa da nascondere a ciascuno degli altri. E poi c’è il personaggio che “tiene le fila”, controllando tutti, senza tuttavia essere infido come in realtà ci si aspetterebbe dal tipo di ruolo: il Morbido (Mathieu Pastore), proprietario del container.
La sua incredibile comunicativa, messa totalmente a servizio dello spettacolo, non sembra tuttavia cogliere nel segno: più che un deus-ex-machina, ci si trova di fronte a una sorta di entertainer, nel tentativo, apprezzabile, ma poco efficace, di conferire quel carattere di universalità alle cronache di disperazione quotidiana da cui siamo continuamente bombardati.
Scusate se non siamo morti in mare – questo il titolo della pièce – è una parabola (alternativa) che scandaglia il fenomeno delle migrazioni contemporanee: il viaggio viene vissuto gradualmente, partendo dalla speranza, passando attraverso l’incubo e la fame, fino alla morte. E da qui, tornare al punto di partenza, attraverso una specie di rivelazione (l’ondata migratoria delle balene, che cercano, in questo modo di salvarsi dall’estinzione), che diventa una condizione propria di qualsiasi essere vivente.
Una “virata” (quasi) mistica, dal punto di vista drammaturgico, ma anche registico (il regista è il giovane Pablo Solari), che si risolve in un’argomentazione, questa volta, troppo debole sul piano metafisico.