Prova a piangere, si sforza, ma niente. Le lacrime non escono. In fondo è normale perché lui un cuore non ce l’ha. E non in senso figurato, ma nel senso letterale del termine. Si chiama Franco, non si sa come abbia fatto a restare vivo. Compensa il ritmo della vita grazie agli altri organi. E’ il protagonista di Se ci sei batti un colpo, personaggio nato dalla penna della giovane e prolifica drammaturga Letizia Russo, portato sulle scene dalla verve di Fabio Mascagni diretto da Laura Curino.
Lo spettacolo è una sorta di viaggio del protagonista senza cuore che, preso dalla noia, prova a capire se vale la pena vivere o se è meglio suicidarsi. È la storia di un percorso di crescita, di ricerca di un senso della vita per chi vive anestetizzato, senza emozione e sentimento verso gli altri (condizione che, oggi, può appartenere anche a chi la pompa-cuore in petto ce l’ha). Franco ha studiato tanto la vita, segnato sui suoi quaderni i comportamenti e le reazioni da tenere ma ora è annoiato. Prova a capire se è più divertente suicidarsi, cerca di capire se ne vale la pena attraverso incontri 'speciali' oltre la barriera del tempo e dello spazio. E qui il tono è davvero comico.
Questa sorta di momento di formazione alla vita viene ironicamente, comicamente, surrealmente, tragicamente condiviso con gli spettatori: Franco incontra Gesù, uno e trino (figura schizofrenica che parla con un pronome di prima persona singolare e un verbo di terza plurale), incontra Akhmed, che gli parla della versione della vita di Maometto e che è anche in kebabbaro della zona, e incontra Malacrisna, pachistano, venditore di fiori che racconta il senso ciclico e ritmico di vivere secondo la dea Kalì. O anche Zeus, il dio in declino, la dottoressa che ha studiato il suo stupefacente caso, la vicina di casa Giuseppa che si lamenta che non sia venuto al suo funerale. I punti di vista su vita e morte sono diversi, ed è esilarante il risultato, per i rimandi religiosi, per le allusioni ironiche e la capacità dell’attore di trasfigurarsi, farsi voci diverse.
Il momento a più voci più significativo in cui il testo è incalzante, la bravura d'attore ancor più chiara, è quello in cui Franco immagina il suo funerale. I personaggi sono davvero surreali. Non avendo Franco un cuore partecipano persone che si dispiacciono di aver perso chi è assolutamente incapace di affetto. Un amico piange per lui che non gli rispondeva mai al telefono, la sua prima ragazza rimpiange un amore che non ha cuore o la sua amica speciale dell'Est, con i suoi gesti-vezzi, e la sua vita basata sui soldi rende ancor più comicamente triste il quadro. Improponibile. La situazione che si viene a creare è intrigante, i vari personaggi prendono la parola velocemente e Mascagni riesce a dar vita a questo alternarsi di vite con varie cadenze, vari dialetti. Franco si rende conto e capisce che è solo un suo pensiero e che invece nella realtà nessuno verrebbe al suo funerale.
E qui c’è una frattura. Franco sta per svenire, per compensare il dolore non mediato dal cuore. E sembra che la storia volga al termine. Del tipo lui non vuole più suicidarsi ma la morte lo coglie lo stesso. Invece no.
La storia riprende, con la figura della vicina di casa morta, Giuseppa, già presente anche nella prima parte, che in qualche modo porta avanti una morale. Gli suggerisce: "Magari c’è quel posto sbagliato dove le cose possono fare qualcosa di più di quell’unica cosa che abbiamo pensato per loro". Una frase che piano piano diventa comprensibile. Un punto di vista in cui la diversità non è più vista come errore: compare una pianta che anche se non sarà mai una pianta di pomodori troverà comunque il suo senso. L'accettazione del sentirsi diverso scioglie ogni contrasto o dolore, anche se Franco non ha cuore e non potrà averlo.
La tensione e il ritmo energico della pluralità di voci, della parte iniziale, si stempera in una storia dal valore ‘educativo’ che rallenta il flusso e conduce in una sorta di dimensione da favola.
Ben guidato dalla Curino, Fabio Mascagni manifesta le sue doti poliedriche in un monologo che non stanca, che diverte in diversi momenti e, anche in tempi in cui lo stupore sembra più gradito della ricerca di un senso, pacifica, armonizza proponendo la saggia morale, forse un po' didascalica, dell’accogliere la diversità dei punti di vista. Si esce da teatro con una sorta di 'lezione', o forse solo l'invito a restare più aperti, a trovare armonia nella diversità e riuscire a vivere la vita usando veramente quanto più possibile il cuore, non solo un muscolo, di cui si ha la fortuna di sentire i battiti.