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SHORT THEATRE 8 PRIMA SERATA

Una prima serata da "tutto esaurito"

Una prima serata da "tutto esaurito"


Pinocchio, della compagnia Babilonia teatri, nasce dall'incontro con la Compagnia teatrale Gli Amici di Luca, composta da persone risvegliatesi dal coma, che hanno intrapreso un percorso terapeutico multidisciplinare che si avvale della scena nella sua forma di laboratorio teatrale o teatro terapeutico dove il palcoscenico diventa cioè non uno spazio dove recitare, dimostrando le proprie abilità attoriali, ma uno spazio politico dove relazionarsi tra soggetti e riaffermare il proprio vissuto, diventando così strumento concreto per l'espressione di sé.

L'interesse di Babilonia teatri per Gli Amici di Luca sta nelle loro potenzialità di essere al contempo attori, personaggi e nessuna delle due cose, come è spiegato nella brochure dello spettacolo Un teatro dove la vita irrompe sulla scena con tutta la sua forza senza essere mediata dalla finzione. Dove l'attore non attore mette in gioco il suo vissuto, la sua inconsapevolezza, la sua sincerità. Dove ad essere determinanti non sono la perizia e la tecnica ma la verità di corpi e vite che parlano da soli [sic].

Lo spettacolo vede in scena tre uomini Paolo Facchini, Luigi Ferrarini e Riccardo Sielli, assistiti scenicamente da Luca Scotton.
Tutti in calzoncini e a torso nudo, mostrano i loro corpi 
per quello che sono.
Tonico per età quello di Sielli che ha gli anni di Cristo o tonici  nonostante l'età  quelli di Facchini e Ferrarini entrambi cinquantenni, tutti e tre segnati dal coma che ha lasciato una traccia del suo passaggio nelle loro difficoltà motorie, nella postura, nelle ridotte capacità foniche.

Presente solo in voce il regista Enrico Castellani si relaziona con queste tre presenze, fa loro declinare generalità e condizione, raccontare le circostanze che li hanno portati al coma, tre incidenti stradali, due di macchina uno di moto. I tre rispondono alle sue domanda seguendo un canovaccio ma liberi di andare all'impronta, contenuti e reindirizzati quando, e se, eccessivi, dai commenti di Castellani.

Nelle risposte dei tre emergono subito i loro caratteri, più riservato Facchini, più sicuro di sé Ferarrini, fin troppo disinvolto Sielli, di quella sfrontatezza data della giovane età.

Castellani contamina il loro racconto con quello di un libro che, per copione, tutti e tre dicono essere il loro preferito il Pinocchio collodiano.

Alcuni elementi del Pinocchio servono per indagare su aspetti privati della vita dei tre uomini, la loro sessualità e loro vita affettiva (avete una fata turchina?) oppure diventano occasione per alcuni momenti di spettacolo come quando Facchini, dietro la guida narrativa di Castellani, si trasforma in asino, oppure quando Ferrarini, quello con maggiori difficoltà fisiche, viene scelto per fare il classico gioco di mimi allo specchio riproducendo i movimenti che gli fa, posto a lui di fronte e di spalle al pubblico, Scotton.

Il riferimento a Pinocchio, anticipato da Scotton, già in scena mentre il pubblico prende ancora posto in platea, anche lui a torso nudo obeso e dall'ape ipertrofico, indossa un lungo naso posticcio fatto di carta bianca, non è casuale perchè fornisce una sponda di resistenza critica a certe domande che sorgono  spontanee osservando lo spettacolo.

Un certo dubbio sulla opportunità che la mostrazione dei corpi dei tre attori possa risultare pornografica, da gabinetto scientifico ottocentesco, dando in pasto a una platea normale l'anormalità dei loro corpi diversi. Un  rischio eluso perchè la mostrazione dei corpi dei tre uomini si fa testimonianza di una visibilità negata. Di un copro negato, che non ha alcuna visibilità e che si presenta in scena per quello che è ,riaffermando la propria dignità di corpo, non di corpo mancante, ma, più semplicemente, di un corpo altro. Altro da una norma estetica nella quale nessuno rientra pienamente come l'ape di Scotton testimonia in tutta la sua possente alterità.
Ogni corpo ha diritto a essere riconosciuto come tale anche se difforme, ma non deforme, dalla norma che è idealizzata e discriminatoria.

Ancora. I riferimenti al Pinocchio  sottraggono la messinscena anche dal dubbio di opportunità sull'uso dei tre attori protagonisti come dei personaggi da manipolare, dimenticandosi che in scena ci sono persone e non personaggi, proprio grazie al concetto della marionetta evocato dai riferimenti al burattino Pinocchio che, di nuovo, rimanda al corpo dei tre protagonisti. Un corpo rinato dopo il coma e che ha raggiunto questa nuova forma e consapevolezza dopo un duro percorso (come ricorda Riccardo, che ci ha messo quattro anni per tornare a camminare) proprio come Pinocchio da burattino è diventato un bambino in carne ed ossa.

Ben al di là delle motivazioni contenutistiche che Castellani riporta in brochure (Pinocchio è l'esaltazione della spensieratezza e allo stesso tempo il richiamo al dovere. Pinocchio è un susseguirsi di incontri e di crocevia dove il burattino è continuamente messo alla prova) ci sembra che la parabola del burattino Pinocchio rappresenti il correlativo letterario del percorso esistenziale di queste tre anime.  Uomini messi tra parentesi una prima volta dal coma, usciti dal quale si sentono come dei fantasmi di se stessi (splendida metafora di Franchini) che rivendicano e riaffermano la propria esistenza in carne ed ossa.

L'unico punto irrisolto di questa messinscena è proprio nella drammaturgia quando la storia che Castellani racconta al pubblico, invece di illuminare le esistenze dei tre attori in scena da un punto di vista storico politico e civile prende la strada elegiaca del racconto (la ricerca di Riccardo della sua fata, il ballo in discoteca di Paolo. la canzone Yesterday dei Beatles tradotta in italiano grazie a dei cartelli mostrati dai tre attori)  girando un po' a vuoto su temi posticci e che non sviluppano il discorso intrapreso fino in fondo, finendo con lo scomodare i tre attori senza un vero motivo narrativo.
Come se dinanzi a tanta carne e ossa Castellani non abbia il coraggio di un affondo ulteriore ma si mantenga sul racconto decoroso e edificante (piccolo) borghese.
E, ancora una volta, Pinocchio sostiene e corrobora questa scelta per una profonda affinità elettiva visto che quel romanzo affonda a piene mani a un orizzonte edificante borghese.
Però mentre in Collodi la felicità delle invenzioni narrative rende il romanzo autonomo dal progetto pedagogico per l'infanzia che quella fiaba si propone di fare, nel Pinocchio di Castellani  questa felicità narrativa improvvisamente viene a mancare.

Così mentre la compagnia Amici di Luca non lesina né carne né ossa né sangue è Babilonia teatri ad essere abbottonato e a non sapere trasformare le premesse dello spettacolo in un discorso che avrebbe potuto essere condotto molto più lontano.


Babilonia Teatri
Pinocchio

di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani
con Enrico Castellani, Paolo Facchini, Luigi Ferrarini, Riccardo Sielli e Luca Scotton
collaborazione artistica Stefano Masotti e Vincenzo Todesco
scene, costumi, luci e audio Babilonia Teatri
organizzazione Babilonia Teatri e BaGS Entertainment
grafiche Franciu
produzione Babilonia Teatri
collaborazione Operaestate Festival Veneto

con il contributo di Comune di Bologna e Regione Emilia Romagna
patrocinio Emilia Romagna Teatro Fondazione
promozione BaGS Entertainment www.bagsentertainment.com
residenza artistica Babilonia Teatri e La Corte Ospitale
Pinocchio è un progetto di Babilonia Teatri e Gli amici di Luca

laboratorio teatrale presso la Casa dei Risvegli Luca De Nigris realizzato col contributo della Fondazione Alta Mane-Italia
ringraziamo Laura Bissoli, Cristiana Bortolotti, Cristina Fermani, Fulvio De Nigris, Eloisa Gatto, Irene Giardini, Nicola Granata, Giovanna Grosso, Marco Macciantelli, Francesca Maraventano, Juri Mozzanti, Cristian Sacchetti, Davide Sacchetti

nuova produzione 2012
presentazione: 7 ottobre 2012 Bologna, Casa dei Risvegli
anteprima: 23 novembre, Parma, Teatro delle Briciole
prima nazionale: 8 dicembre 2012 Modena, Teatro Storchi
www.babiloniateatri.it
www.amicidiluca.it

 

 

Nos solitudes della coreografa, danzatrice  (e osteopata) Julie Nioche è una coreografia che si sviluppa intorno a un corpo sospeso che riesce a stabilire un rapporto nuovo con lo spazio  e la gravità grazie a sei cavi ai quali la danzatrice si collega (due alla vita due ai polsi e due alle caviglie) e si sospende.

Partendo supina da terra, cioè da una posizione di non sospensione, Julie Nioche appronta una esplorazione dello spazio e delle possibilità di movimento in esso, così come della postura del suo corpo appeso, man mano che si issa, con l'ausilio della forza delle braccia e delle gambe con le quali tira i cavi agendo su un sistema di carrucole anche a molla che la innalzano fin sotto la sommità della struttura che sovrasta il palcoscenico cui è appesa.

Con lei pendono dei pesi da bilancia, di medie e piccole dimensioni, che si alzano e si abbassano in controrisposta ai suoi movimenti, avendo più una funzione simbolica ed esornativa che di vero meccanica, non fungendo, almeno crediamo,  da principale sistema di bilanciamento del carico costituito invece da un nutrito gruppo di mattoni. Al di là del reale meccanismo tecnico la presenza dei pesicontrappesi si contrappone al corpo sospeso della danzatrice: nel momento i cui lei si issa quelli scendono fino a toccare terra (o a precipitare rovinosamente sul pavimento alla fine della coreografia).

Così appesa la danzatrice saggia ogni possibilità di postura che le deriva da suo stato di sospensione riprendendo anche le posizioni che si hanno normalmente a terra riproponendole nell'aere assieme a tutte le possibilità di espressione coreutica che la sospensione dell'effetto di gravità le permette di sperimentare .

Sdraiata, seduta,  in piedi, a testa in giù ognuna di queste posizioni è conquistata e raggiunta grazie dalla possanza muscolare della danzatrice e alla perfetta padronanza nel manovrare il meccanismo di sospensione  attestandosi come il risultato di una ricerca di esplorazione spaziale e sensoriale nella quale tastando l'aria la danzatrice esplora e occupa lo spazio che la circonda.

Una coreografia che costituisce una nuova attestazione della solitudine monadica di ognuna e ognuno di noi ma che rappresenta anche anche una (di)mostrazione delle capacità di smarcarsene mettendosi alla prova in un dialogo interiore che diventa una forma di ascolto di sé perché ascoltarsi,
darsi fiducia è un salto nel vuoto
come scrive Nioche nelle note allo spettacolo.

Elegante, impeccabile nell'esecuzione, suggestivo e ipnotico Nos solitude è stato presentato da Shorth Theatre 8 nell'ambito di FranceDanse, Festival di danza contemporanea in
Italia, realizzato dall’Institut Français Italia/Ambasciata di Francia
in Italia con il sostegno della Fondazione Nuovi Mecenati, dell'Institut Français e del Ministère de la Communication et de la Culture.
   

Julie Nioche

Nos Solitudes         

idea, coreografia e performance Julie Nioche

musica, creazione e interpretazione Alexandre Meyer

scenografia Virginie Mira

sistema aereo Haut + Court / Didier Alexandre e Gilles Fer

luci Gilles Gentner

costumi Anna Rizza

direzione tecnica Christian Le Moulinier

stage manager Gaétan Lebret

produzione A.I.M.E. con Le Manège de Reims - scène nationale

coproduzione Le Manège de Reims, scène nationale, Le Vivat scène conventionnée danse et théâtre in Armentières

con la collaborazione di ARCADI, il supporto di Bateau Feu,
scène nationale di Dunkerque, CENTQUATRE di Paris e la Maison Hermès

Grazie a Guillaume de Calan, Nicolas Gicquel, Gabrielle Mallet e a la Ganterie Saint-Junien.

Nel 2013, A.I.M.E. / Julie Nioche è in residenza al Forum,
scène conventionnée de Blanc-Mesnil, e a Bateau Feu / scène nationale –
Dunkerque

Julie Nioche è artista associato all’Hangar 23 a Rouen.

www.individus-en-mouvements.com         




Suggestivo ma intrinsecamente irrisolto invece Terra pisada, por donde se anda, camino (t.l terra battuta, per dove si va, cammino) della compagnia El canto de la cabra.         

Lo spettacolo si sviluppa in tre componenti diverse  che nella messinscena non riescono a proporsi organicamente in una visione d'insieme.

La parte più corposa è l'allestimento scenografico una vera istallazione artistica che vede Elisa Gálvez e Juan Úbeda interagire con una scena nella quale sono stati tirati dal soffitto al pavimento 900 fili neri che il pubblico non vede coi quali i due performer interagiscono prima semplicemente districandosi attraversando di loro in una sorta di foresta invisibile  poi appendendo ai fili alcune forbici da sartoria in metallo luccicante componendo un work in progress sotto gli occhi della platea mentre i fili si popolano di diverse decine di forbici. Ad alcuni fili verrà dato fuoco tramite  a un accendino e le forbici cadranno conficcandosi, per la forza di gravità, su dei cartoni che ricoprono il pavimento. Poi mentre alcune forbici superstiti sono ancora sospese si ripete l'operazione di fisaggio stavolta di una serie di corte o lunghe ghirlande di fiori secchi o, come dicono i due autori nelle note allo spettacolo, di fiori morti.

Anche alcune cornici di quadri vengo appese ai fili ritagliando così nella sospensione di fiori e forbici alcuni ri-quadri a comporre delle nature morte di suggestiva bellezza.


Intanto che questa performance performance (della durata non indifferente di 90 minuti) lentamente si dipana una serie di brani musicali jazz e blues commentano l'operazione di doppia sospensione riprodotti in sequenza tali e quali come si trattasse di una playslist personale e casuale che non sembra intrattenere nessun dialogo con la performance non attestandosi nemmeno come colonna sonora pensata e organizzata, al di là della mera funzione esornativa di tappeto sonoro.

Il terzo elemento è un lungo e composito testo videoproiettato durante l'ora e mezzo di performance su di uno schermo posto lateralmente alla sinistra della scena. Delle didascalie che distinguono tre atti e nove scene  che descrivono situazioni e sensazioni, a tratti pretestuose, e raramente in relazione con quanto accade in scena, che registrano riflessioni personali dei due performer. 

Le note di regia costituiscono uno sfondo dal quale guardare a questi elementi con una certa prospettiva:

Fa impressione verificare come, di fronte alle trepidanti e a volte
violente trasformazioni del XXI secolo, tutto rimanga al proprio posto.
Forse è questo il motivo per cui non ci sono ribellioni, non è possibile
ribellarsi contro qualcosa di immobile, morto, e meno ancora se si fa
parte di quel qualcosa di morto. Crediamo che sia importante continuare a
cercare di celebrare quello che ancora possiamo avere in comune, quello
che condividiamo, che non è di nessuno, che non appartiene a nessuno e
che neanche esiste, ma che c’è. Al meno ora abbiamo imparato che la
realtà, qualunque realtà, può crollare senza preavviso, che non capiremo
mai più il luogo in cui siamo e che se non ci siamo non succede niente.

Presentandosi come aforismi (ho sostituito la freddezza dell'uomo con la freddezza della solitudine nel I atto) o toccanti elegie (il silenzio che si ascolta è così diverso dal silenzio che si fa nel II atto; i giorni in cui smetto di disperare smetto anche di appartenere, è il prezzo da pagare per stare dentro  sempre nel II atto) o, qualche volta, come parabole banali e oleografiche (il fiume in piena che non si credeva potesse morire e quando è in secca si pensa che forse gli uomini vanno a piangere alla fonte per riempirlo nuovamente d'acqua) l'intero corpus di testi videoproiettati allude a una criptica mistericità della vita più dichiarata che davvero raggiunta che non si affranca mai dalla voluttà poetica di voler additare la solitudine che emerge nel momento stesso in cui dicendo io sono si dice anche io sono solo. Dei testi che al di là della loro efficacia letteraria distraggono lo sguardo del pubblico dal lavoro performativo dell'autore e dell'autrice lavoro che, datane la lentezza e la ripetitività, smette ben presto di calamitare l'attenzione.

Si esce dallo spettacolo con un forte senso di suggestione ma anche di occasione mancata per l'incapacità dello spettatore, della spettatrice,  e, dunque di chi lo spettacolo ha allestito e proposto a un pubblico, di collegare e unire in un corpus organico queste tre diverse direttrici che non riescono davvero a essere mai colte in uno sguardo di insieme che non sia quello narcisistico che invita a essere visti letti e ascoltati.


Ma alla fine dinanzi l'insovrapponibilità delle tre direttrici, incapaci di dialogare in un  interscambio davvero fruttuoso si staglia la sensazione prevalente di avere assistito a uno spettacolo che non è ancora riuscito a trovare il suo centro.


 

          El canto de la cabra


tierra pisada, por donde se anda, camino

(terra battuta, dove si va, cammino)         



creazione e realizzazione Elisa Gálvez e Juan Úbeda

traduzione in italiano Miguel Acebes

consulenza tecnica Fernando Úbeda

produzione El Canto de la Cabra

con la collaborazione di Comunidad de Madrid

El Canto de la Cabra viene presentato per la prima volta a
Roma grazie alla collaborazione tra l'Instituto Cervantes di Roma e il
Ministerio de Educación, Cultura y Deporte. Gobierno de España. INAEM

 

Visto il 05-09-2013