Danza
SONGS OF THE WANDERERS

Una distesa di riso dorato…


	Una distesa di riso dorato…

Una distesa di riso dorato copre interamente il palcoscenico e dall’alto piove riso sul capo rasato di un monaco stante in preghiera sulla destra, immobile.
La luce dell’imbrunire penetra attraverso la copertura traslucida del Pala De Andrè e dall’oscurità delle quinte sopraggiungono, con lieve e lento incedere, figure che sembrano provenire da un mondo ultraterreno. Li accompagna una musica mistica, sono canti folklorici georgiani interpretati dal Coro Rustavi, e gradualmente entriamo nella dimensione spirituale di “Songs of the Wanderers” ovvero, letteralmente, i Canti dei viandanti.
Lin Hwai-Min, ci accompagna nel ricordo del suo viaggio a Bodhgaya, in India, dove il Buddha ha avuto l’illuminazione all’ombra dell’albero della bodhi, e ci regala un raro momento di ascetismo, coreografando un vero e proprio rituale di purificazione.
I ventiquattro danzatori fluttuano letteralmente sul palco con movimenti lentissimi che riuniscono sapientemente le emozionanti sequenze gestuali del Tai Chi Tao Yin, la potenza e la stabilità delle arti marziali e i movimenti espressivi dell’Opera cinese. Si passa da un’immagine all’altra quasi per magia e si stagliano continuamente ai nostri occhi suggestive composizioni sceniche, orchestrate con un gusto estetico ispirato alla forza della natura e alla bellezza dei suoi elementi, cinque secondo la tradizione cinese: fuoco, terra, metallo, acqua e legno.
Il riso, simbolo di vita in quanto frutto della terra e dell’acqua, forma un paesaggio stratificato e modellato in onde e colline che accolgono i danzatori in un percorso cerimoniale, ciclico e inframmezzato da pause di preghiera. Ecco allora incedere una processione di uomini e donne con lunghi bastoni in mano che si dirige in avanti per abbeverarsi e bagnarsi gioiosamente e metaforicamente nel “Fiume sacro”, il fiume Naranjra a Bodhgaya. Le donne si raggruppano quindi su una duna di riso e come giunchi ondulano sinuosamente al vento in pose ancestrali e statuarie, mentre gli uomini a terra si dibattono tra i chicchi sparpagliandoli e gettandoli vigorosamente in aria.
Sulla scena si alternano altre processioni - la stirpe umana eternamente in cammino – come un filo rosso che introduce ed accompagna il susseguirsi dei rituali religiosi.
Il “Rito dell’albero” ci mostra la continuità e la complementarietà degli opposti: gli uomini portano un ramo di foglie verdi e si frustano in atto di penitenza; le fronde vengono passate alle fanciulle e loro donano in cambio il loro bastone, ora dotato di un campanellino che scandisce il tempo con le sue vibrazioni sonore; formando l’immagine di un cerchio simbolico, l’universo maschile circonda e accoglie il femminile e quest’ultimo fuoriesce per circoscriverlo a sua volta. Poiché ogni cosa contiene in sé il seme del proprio opposto, come lo Yin e lo Yang, ogni uomo ha dentro di sé una parte dolce, ogni donna una parte forte e l’armonia è data dal tutto.
Ugualmente le due coppie che avanzano “Sulla strada”, si separano e si ritrovano. Il ramo-bastone è costante elemento di unione e di intrecci tra lui, forte o difensivo, e lei, caricata sulle spalle o che si trascina ai suoi piedi. Non vi è nulla di carnale in questo danzare puramente evocativo delle due nature complementari, tese a completarsi.
Per la stessa legge degli opposti l’armonia viene interrotta da alcuni momenti concitati, quasi di delirio mistico o trance, come nell’assolo catartico di Wang Wei-ming. Seminudo si muove furiosamente con cadute e risalite ripetute lanciando enormi manciate di riso. Quasi a preannunciare singolarmente quella che sarà la finale estasi collettiva.
Il “Rito del fuoco” prepara infatti all’ultimo atto della cerimonia: bracieri ardenti portati da figure nell’oscurità vengono posti per un attimo sul capo di alcune donne velate e inginocchiate in un’atmosfera di estrema sacralità purificatoria. Ma le fanciulle si abbandonano improvvisamente al suolo ed entrano tutti sulla scena illuminata a giorno per una convulso rituale conclusivo. Tra il roteare dinamico su se stessi e i salti dei danzatori si assiste ad una esplosione di riso come fuochi d’artificio in un climax travolgente e in un emozionante inno alla vita.
La quiete torna quando i corpi stanchi si adagiano nell’ombra sul letto di riso e l’applauso del pubblico si alza fragoroso a liberare l’emozione giunta al suo apice. Anche Wang Rong-yu, il Bodhisattva - colui che ricerca l’illminazione - che è rimasto immobile fino al termine nella sua intima meditazione e preghiera, si unisce agli inchini e al saluto di Hwai-min. Ma lo spettacolo non è ancora finito.
Un uomo curvo con un grande rastrello - lo abbiamo visto sempre in scena a solcare nel riso la strada per i danzatori - resta solo. Disegna ora metodicamente una spirale che si allarga via via a tutto il palco; è la “Fine o Inizio”, simbolo dell’infinito e dell’eterno ritorno. Un “mandala” o un giardino zen che si mostra nella sua perfetta bellezza.
Composizione del 1994, “Songs of the Wanderers” continua ad essere alla ribalta perché è l’opera in cui Mr Lin sente di aver meglio incorporato la sua poetica ed è considerata come un diario di viaggio in cui ogni volta trova una nuova via di accesso. Una ricerca portata avanti insieme alla sua compagnia, Cloud Gate Dance Theatre, fondata nel 1973, il cui nome per altro deriva da una danza rituale cinese, il “Cloud Gate”, risalente, pare, a cinquemila anni fa.
Coreografo di fama mondiale, Lin Hwai-Min trae ispirazione dalla cultura tradizionale asiatica ma il risultato dei suoi lavori è una sapiente fusione tra tecniche di danza e principi teatrali orientali - come non restare affascinati da quei movimenti disarticolati e dalle posizioni delle mani e dei piedi tipicamente piegati all’interno - e la danza moderna e classica occidentali. D’altra parte ha studiato l’Opera cinese, la danza classica di Corte giapponese e coreana ma anche Martha Graham e Merce Cunningham a New York e ne è emerso un linguaggio “altro”, oltre i confini delle diversità.
Fondatore inoltre del dipartimento di Danza all’Università di Taipei e della scuola legata alla compagnia, conta sulla ferrea preparazione del suo corpo di ballo, con cui lavora all’unisono.
In un paese come l’antica isola di Formosa, in cui il culto del movimento come fonte di benessere interiore è primario e laddove il controllo del corpo e dello spirito è rimasto inalterato nelle discipline artistiche, atletiche o marziali, è imprescindibile per i danzatori lo studio dalla meditazione, dal respiro, dall’improvvisazione ad occhi chiusi; aspetti fondamentali se occorre, secondo il maestro, “essere il movimento anziché limitarsi a farlo”. E lo studio della Calligrafia è altrettanto importante per un sapiente uso del vocabolario corporeo dato che “il pubblico è come la pagina bianca su cui il pennello traccia i segni con maggiore o minore densità, energia, tensione”.
Da occidentali ci siamo lasciati trasportare dal segno del pennello entrando in intima comunione con il “Canto dei viandanti” e ritrovando nel fascino eterno dell’Oriente qualcosa che ci appartiene. Una spiritualità perduta in parte o, totalmente, vien da dire notando che molte persone si sono alzate prima di vedere concluso il “mandala” di commiato. Tuttavia la maggioranza del pubblico è rimasta concentrata per godere fino all’ultimo della naturalezza, dell’ascetismo e della quiete dell’opera perché “allontanarsi dal mondo, diventare autonomi e vivere come un eremita ascetico è il completamento dell’essere.” Paola di Lin Hwai-min.

Cloud Gate Dance Theatre of Taiwan
Songs Of The Wanderers
Coreografia: Lin Hwai-Min
Musiche: canzoni popolari della Georgia cantate dal Coro Rustavi
Luci: Chang Tsan-Tao
Scene: Austin Wang
Costumi: Taurus Wah
Ideazione attrezzeria: Szu Chien-Hua, Yang Cheng-Yun
Questo tour è stato reso possibile grazie al sostegno del Council for Cultural Affairs, Taiwan e del Ministero degli Affari Esteri, Repubblica di Cina (Taiwan)

Visto il
al Palazzo Mauro De André di Ravenna (RA)