“E lasciatemi divertire”: è difficile a volte identificare in questa epigrafe così incisiva e sintetica, l’autore di un lavoro narrativo articolato, compiuto, una sorta di universo a sé, come Sorelle Materassi, opera nella quale Aldo Palazzeschi dipinge la rappresentazione di un cosmo chiuso, senza possibilità di evoluzione, interamente descritto da opzioni “necessarie”, ovvero casi della vita univocamente determinati che si ripetono in un paradossale meccanismo di coazioni a ripetere.
Così, ecco che le brave ricamatrici Teresa e Carolina, le anziane “signorine” Materassi, vittime da bambine della dissolutezza del padre, si trovano in tarda età a fronteggiare la rovina finanziaria derivante dagli sperperi del nipote Remo, parassita fascinoso cui non hanno mai saputo dire di no. Lui, d’altra parte, il maschio per antonomasia, bello ma sfuggente, dispensa briciole d’affetto in cambio di ingenti doni che sazino la sua fame implacabile di denaro; né d’altra parte esita a mostrare un lato aggressivo, violento, quando le zie oppongono (debole) resistenza alla sua proposta di fronteggiare il cumulo di debiti con una cambiale.
Amore, in tutta l’opera, se ne vede molto poco. Declinato in fiera asprezza in Teresa, in tenera sottomissione in Carolina, questo sentimento idiosincratico che le lega a Remo è da loro intelligentemente definito come un attaccamento ideale, al punto che, quando il nipote le abbandona per rifarsi una vita in America, affidano a Niobe l’incarico di conservarne le fotografie e la memoria, per ricostruire un nipote “ideale”, un ricordo a loro immagine e somiglianza, che faccia meno male.
Tutto questo – col carico di dolore che ne consegue – è reso magistralmente dalle monumentali interpretazioni delle quattro protagoniste, nelle quali si sente tutto il bagaglio della “sapienza del mestiere” (dalla duttilità dei movimenti alla gamma di espressività vocale che, in Marilù Prati, si articola anche nel canto): una recitazione ricca e virtuosa cui non dev’essere senz’altro stato facile fare da contrappunto per l’attore Gabriele Anagni, che, nel ruolo di Remo, sacrifica un po’ di spontaneità e verve carismatica a un’impostazione attoriale nella quale non sembra trovarsi a proprio agio.
Ugualmente, tra le sbavature di questa messinscena, si trova una regia forse piatta e troppo “filologicamente” legata al testo (e allo storico adattamento di Ugo Chiti). Nella pur suggestiva scenografia (con una sorta di porta/diaframma aperta al giardino), l’allestimento con tavolo centrale pare risentire di eccessiva stasi, trovando una sua misura più movimentata nella scena del matrimonio di Remo e Peggy. Altrettanto interessante la scelta di creare uno schermo di ombre per descrivere il sogno di Carolina, al cospetto del papa con la sorella Teresa.