STUDIO SU MEDEA - TRILOGIA

Un sontuoso universo d'interferenze figurative

Un sontuoso universo d'interferenze figurative

Ad arginare il segno poetico che si consuma, il teatro di Antonio Latella indaga senza inibizione nuove forme della messa in scena, spingendo nell’alveo delle lingue riconoscibili e muovendo continuamente sulla soglia estrema il gesto scenico; l’esito, mai quello di un’avanguardia programmata e artificiosa, si nutre di un’autentica capacità di spostare i codici della scena oltre gli orizzonti esplorati.

Lo studio su Medea inverte in qualche modo la rotta dell’esperienza registica precedente; se con la trilogia pasoliniana Latella aveva conquistato i vertici altissimi di un teatro concentrato sulla parola, in questo lavoro la sottrazione sul testo è radicale, il linguaggio della scena restando completamente affidato alla fisicità dei protagonisti, al loro idioma corporeo e ad uno scabro apparato di icone scenografiche. Il risultato è di straordinaria potenza immaginifica: un universo d’interferenze e di rimandi figurativi non mediati dalla parola, che s’infiamma nella percezione dello spettatore dilatando il mito e la figura di Medea ben oltre la sua collocazione storica e letteraria ed aprendo alla lettura di sovrapposizioni col presente e con gli archetipi dell’esperienza umana.

Uno dei temi persistenti del trittico è il contrasto antropologico tra le culture di Giasone e Medea; lui maschio e greco, personificazione del modello di potere, lei femmina e straniera, portatrice di un sapere ancestrale, ferino e ingenuo. L’opposizione si espande diacronicamente nella più generale idea di conflitto tra impero e periferia, tra dominante e dominato. Giasone si carica degli stereotipi della mascolinità occidentale contemporanea – lo sport, la guerra – sui quali pretende di forgiare i figli; Medea prova a sottrarli all’abbrutimento della conformità, fino a quando la sua arcaica e disarmata sapienza soggiace. La grecità di Giasone è l’epicentro tolemaico di un sistema che riconosce l’identità altrui solo per confronto o per differenza; l’incontro con la barbara Medea avviene su percorsi codificati – le nozze, la costruzione del talamo – oppure non avviene, responsabile il divario tra due culture che stentano reciprocamente a comprendersi. Eppure all’orecchio dello spettatore giungono egualmente estranei, una pura sonorità aliena, il greco antico di Giasone e il tedesco moderno di Medea, al pari della loro fonazione stentata e preverbale.

L’episodio dell’uccisione dei figli, che identifica per antonomasia il personaggio di Medea, appare intenzionalmente decentrato e riletto. In una versione originaria del mito i figli di Medea e Giasone vengono trucidati dagli abitanti di Corinto; Euripide, per limpide ragioni di decoro nazionalista, trasferisce la colpa dell’infanticidio sulla madre “immigrata”, spiegando il gesto col desiderio di vendetta. La voce della “ragion di stato” non può evidentemente risuonare in Latella (ma già Christa Wolf si era ribellata alla lezione euripidea), che riconsidera la morte inferta come quieta catarsi, un’intenzione animalesca e priva di pathos con cui Medea libera i figli dall’identificazione col padre. Solo allora, in un quadro di lenta nostalgia, i due fanciulli morti giocano con la propria immagine divenuta marionetta – verrebbe da dire l’anima “compagna del corpo” che si separa dalla materia – da cui passo a passo si allontanano per ascendere con la madre ad una dimensione eterna. Nella scena finale Giasone veste i panni del Pinkerton pucciniano (trasparente la sovrapposizione con un altro uomo “dell’impero” che ha ripudiato legittimamente la sposa orientale); e non è dunque il padre affranto che implora di poter seppellire i figli, ma un ufficiale strafottente che ripulisce il campo dai resti umani della tragedia, con la leggerezza intangibile di chi ha la protezione degli dèi.

La straordinaria costruzione drammaturgica e l’assenza quasi assoluta di parola richiedono agli attori un’esecuzione trascendentale e un controllo gestuale portato al limite del possibile. Nicole Kehrberger domina la scena con una fisicità sovrumana, enunciando con la formidabile libertà delle movenze ciò che la parola non riuscirebbe a dire; ad esempio quando sale come un animale incorporeo la corda che la conduce al cielo, nascondendo lo sforzo tremendo in una gestualità soave che la fa apparire davvero metafisica. Eccellente la prova di Michele Andrei, attore proveniente da esperienze abbastanza differenti, che si lascia plasmare con profonda intelligenza, fino a diventare consanguineo al personaggio che esegue; la sua corporeità riesce ad esprimere con pienezza la prepotente soggettività di Giasone senza slittare nella caratterizzazione superficiale. Bravissimi anche Giuseppe Lanino e Emilio Vacca, soprattutto a rendere l’empatia immateriale di un rapporto quasi gemellare, ora risonante nel sentimento primordiale della madre, ora nel cameratismo aggressivo del padre.

Ciò che rende particolarmente lucida l’esplorazione di Latella è la sua matura indipendenza dalla pressione dello spettatore: non c’è indulgenza ad una comprensibilità istantanea né scivolamento verso alcuna tentazione estetizzante, ma piuttosto lo sforzo di attrarre i testimoni degli accadimenti entro la liturgia sacrale della scena. La rappresentazione respinge una riduzione elementare e disunita del testo né si presta volentieri alla decodifica elementare di ogni gesto attraverso un ordinario lavoro di “versione in prosa”: il senso più alto emerge piuttosto dalla convivenza integrale dei significati espliciti o intravisti, quasi un afflusso “olistico” attorno alla molteplicità delle visioni prospettate (o provocate). In fondo anche la temporanea inquietudine che una soluzione meno leggibile può stimolare nello spettatore fa parte del rituale: come se – aggirata la facile seduzione dell’evidenza – l’indisponibilità di una chiave comoda aprisse la possibilità di un’ulteriore e più intensa significazione.

 

Visto il 20-05-2007
al Nuovo di Napoli (NA)