Anticipato al mese di Aprile, invece del tradizionale mese di Maggio delle passate edizioni, Teatri di vetro numero sette ha deciso di aprirsi in maniera ufficiale alle istallazioni d'arte ,che negli anni passati avevano contaminato la programmazione più in sordina, senza il riconoscimento ufficiale di quest'anno.
Il festival della nuova drammaturgia d'altronde ha sempre scelto e proposto autori, testi e performance refrattari a definizioni troppo deterministiche o consolidate, riconoscendo all'arte teatrale uno statuto poliedrico ed eclettico.
Molti gli eventi della serata, più o meno di apertura, preceduta da un exploit al forte Fanfulla domenica scorsa, incentrato principalmente sulla musica dal vivo, e da una serie di dibattiti sulla drammaturgia contemporanea che si sono svolti a cominciare dallo scorso mese di marzo, a dimostrare la vocazione profonda di Teatri di vetro di una ricerca che ha nella settimana o poco più del Festival il momento i cui si mette alla prova e si dà mostra di un percorso e di una pratica permanenti.
Abbastanza curiosamente i due testi drammaturgici in senso stretto della serata, dove la parola, il testo scritto, per intenderci, prevale sulla messinscena e sulla performance, si sono dimostrati alquanto tradizionali.
La società di Lino Musella e Paolo Mazzarelli è una classica commedia borghese (il termine va qui inteso non dal punto di vista ideologico ma della forma drammaturgica) in tre atti per quattro personaggi, ambiziosa e sostanzialmente riuscita nella forma quanto nella sostanza ma che lascia perplessi per gli assunti da cui parte e le conseguenze che la commedia ne trae.
La storia narrata vede per protagonisti tre amici, Salvo, Ugo e Vittorio più una donna straniera, Luba, cittadina rumena.
La commedia racconta dei cambiamenti avvenuti tra i tre amici nell'arco di cinque anni, da quando lo zio di Salvo gli ha affidato la gestione di un locale al momento in cui, morto lo zio, i tre amici litigano per la gestione del medesimo, che hanno ereditato in parti uguali.
Il racconto si apre con lo zio moribondo quando ci vengono presentati tutti i personaggi nei loro rapporti attuali e solo nel flashback del terzo atto, ambientato nel momento in cui il locale è ancora da restaurare, ci mostra come i rapporti tra i tre amici e Luba erano completamente diversi dandoci la possibilità di fare un confronto all'impronta di come e quanto siano cambiati.
Lascia perplessi in questo lavoro il modo in cui i due autori sviluppano l'assunto centrale della commedia che consiste in una critica morale più che politica o sociale (Salvo cita Gesù in un racconto che gli aveva fatto lo zio quando era un bambino) alla brama di denaro e all'edonismo della nostra società.
La natura dei personaggi è mostrata tramite comportamenti scritti nella lingua infida del cliché e dello stereotipo senza che il bacino di valori da cui questi cliché sono presi venga minimamente messo in discussione.
Così Luba, cittadina rumena, parla con una accento da barzelletta, tanto che il testo all'inizio insiste sulla comicità della scarsa comprensione del suo italiano, ed è descritta come donna arrivista, che diventa l'amante dello zio (io lo amo dice a ripetizione nel primo atto mentre parte del pubblico si sganascia dalle risa) ma va comprensibilmente a letto con Salvatore, il più bello dei tre amici, del quale resta incita. Dato che Salvatore non ne vuole sapere del bambino, Luba lascia credere a Ugo, che vuole sposarla, che il figlio che aspetta sia dello zio e non di Salvatore...
La semplificazione ideologica con cui la commedia descrive e spiega il comportamento dei personaggi (maschilista, patriarcale, razzista) costituisce la matrice stessa di quel disimpegno edonista che la commedia cerca di criticare finendo paradossalmente per confermarlo nel momento in cui pretende di metterlo in discussione.
Rimanendo la critica ai personaggi tutta interna al loro carattere senza agganci al politico (ale relazioni tra singoli e la società) la commedia si limita a proporre un generico moralismo borghese più attento ad additare le singole persone che i meccanismi culturali, ideologici e sociali centro cui quei comportamenti acquistano significato.
La società
scritto e diretto da: Lino Musella e Paolo Mazzarelli
con: Fabio Monti, Lino Musella, Paolo Mazzarelli, Laura Graziosi
scene: Elisabetta Salvatori
costumi: Stefania Cempini
luci: Mauro Marasà
***
Las Vegas di Tobia Rossi ha vinto la quinta edizione del Bando Urgenze, un percorso di residenze creative, nel quale cinque autori emergenti, selezionati su base nazionale, hanno prodotto altrettanti testi inediti, scritti sotto la guida di Giuseppe Manfridi.
Presentato nella forma di lettura, assai infelice nell'esecuzione, tutta sbilanciata verso una impostazione declamatoria da lettura scolastica con tutte le intenzioni stonate e poco fluide Las Vegas è incentrato sull'idea modesta ma dignitosa di fare incontrare due personaggi molto diversi tra di loro, per censo, età e per stile di vita, un quasi sedicenne, fuggito dalla comunità in cui vive - sottratto alla madre che porta a casa sempre uomini diversi - in cerca del padre del quale sa poco e niente, e un professore omosessuale.
L'idea che il professore possa imparare qualcosa su come gestire i suoi rapporti d'amore (l'uomo ammette con riluttanza di essere innamorato di un giovane ragazzo che frequenta e che lavora nel vuoto mondo della moda) dal sedicenne, che gli dispensa consigli con entusiasmo accettando immediatamente la sua omosessualità, senza reagire negativamente, anche dopo che il professore ci ha pesantemente provato con lui, ha in sé qualcosa di poetico ed encomiabile ma paga lo scotto di una visione dell'omosessualità e del disagio giovanile piene di cliché, e di pregiudizi, che rendono il testo datato e omonegativo.
La sociologia che Rossi impiega per dare spessore ai suoi personaggi pesca nel moralismo più ovvio additando madri poco materne perchè hanno tanti partner sessuali, secondo una asimmetria di genere che vede la donna promiscua in maniera molto più negativa dell'uomo promiscuo (forse perché, si sa, il maschio è cacciatore).
Quel che dà fastidio di questo testo è l'equazione che accomuna alla marginalità sociale del minore, messo dai servizi sociali in una comunità assieme a disadattati e minorenni stranieri, che non parlano una parola di italiano e sono violenti, a causa di una madre inadatta e, dunque, non per colpa sua, all'omosessualità maschile, lasciando intendere che anche il professore sia una vittima proprio come il ragazzo (non è colpa sua è che gli omosessuali sono fatti così) ignorando del tutto il ludibrio pubblico che non lascia spazio alcuno agli orientamenti sessuali non etero (perché non c'è solo l'omosessualità, ma anche la bisessualità) non riconoscendo loro nessuna dignità, nemmeno quella di essere famiglia, ludibrio che spiegherebbe senza giustificarla il perchè di una riluttanza alla visibilità da parte di (certi) omosessuali.
Una omosessualità ridotta al mero sesso e a certe pratiche sessuali che il professore elenca senza esclusione di particolari.
Nella visione antropologica di Rossi il sesso tra uomini si distingue in sesso attivo e sesso passivo e gli uomini bisessuali (ne conosco di ragazzi con la fidanzata che vengono qui a farsi scopare da me...
dice il professore all'adolescente) sono annoverati tra le criptochecche (cioè uomini che credono di essere etero mentre in realtà sono omosessuali) rendendo maschilista un termine di tutt'altro significato, creato dall'attivista l'lgbt Mario Mieli 40 anni fa.
Forse è per questo che nelle note di presentazione dello spettacolo, firmate da Manfridi, mentre l'adolescente viene descritto come un vagabondo che va alla ricerca del padre, e nell’immolarsi alla sua impresa esprime un senso di innocenza assoluta al professore Mafridi si riferisce con la criptica circonlocuzione addestrato ai meandri a cielo aperto di un cascame urbano ridotto a terra di nessuno con una forma incredibile di censura che, dispiace constatarlo, dimostra come nel 2013 in Italia ci sia ancora chi crede che l'omosessualità non debba nemmeno osare di dire il suo nome.
Non ci fraintendano il lettore e la lettrice.
Se le persone omosessuali fossero davvero emancipate nel nostro Paese dal ludibrio in cui sono invece costrette a vivere, e godessero di quei diritti che vengono loro negati in base a un pregiudizio omofobo che le vuole promiscue e incapaci di una stabile relazione affettiva, non ci sarebbe nulla di male nel presentare un personaggio omosessuale di siffatta natura.
Visto però che il ludibrio pretende che gli omosessuali si comportino tutti quanti così a causa di una loro innata indole, questo ennesimo personaggio omosessuale, immaturo e promiscuo, non contribuisce a creare un immaginario collettivo di rispetto e solidarietà, ma a serrare un altro anello di una catena di emarginazione sociale.
Questo incontro tra diversi finisce insomma per essere un mero esercizio di stile che non affronta minimamente le questioni profonde che ci sono dietro lo status quo, finendo - fosse anche involontariamente - con il confermarlo: alla fine il professore lascia l'adolescente nel suo bivacco di fortuna e se ne torna nella sua casa senza pensare minimamente di ospitarlo, almeno per una notte, mostrando una totale incapacità di solidarietà di classe.
Ci chiediamo se questo dettaglio costituisca il segno consapevole di una denuncia o sia piuttosto quello di un fatalismo ideologico davvero inquietante.
testo di: Tobia Rossi
lettura scenica a cura di: Biancofango
con: Andrea Trapani e Paolo Leccisotto
regia di: Francesca Macrì
Hi-kari produzioni
***
Accidente Glorioso 5 – Corazon Nuevo si delinea come una squisita commistione tra performance e monologo.
Dopo che il pubblico si accomoda in platea un uomo maneggia una fotocamera digitale dotata di un potente zoom col la quale esplora i volti della platea. Le immagini sono videoproiettate su uno schermo alle sue spalle, a favore del pubblico, che si può così rispecchiare o perchè vede la propria faccia ingrandita o perchè coglie nella faccia di un altro spettatore, un'altra spettatrice, magari vicina di sedia, un'emozione tradita dal volto nella quale riconoscersi o con la quale confrontarsi.
Imbarazzo, pudore, divertimento, angoscia, smarrimento, molte sono le emozioni che la platea è invitata a leggere sui volti del pubblico man mano che la fotocamera ne esplora la superficie e la geografia.
Dei volti ingranditi le cui dimensioni maggiori che nella realtà danno loro una sorta di epicità quasi come il pubblico fosse chiamato ad assistere a un accidente collettivo nel quale e del quale è al contempo soggetto e oggetto.
Intanto le note stentoree di un piano elettrico suonato dal vivo accompagnano l'esplorazione della macchina fotografica e proprio quando il pubblico è sedotto e incantato da questo gioco esplorativo viene inquadrato il volto di una donna che inizia il suo racconto.
Il racconto di un'attesa. L'attesa di un cuore per il compagno. Un cuore da trapiantare e dunque da espiantare prima. Trasformando la morte di qualcuno nella vita di qualcun altro.
Il cuore di una donna che ha subito un incidente di macchina. Un cuore che salva la vita dell'uomo cambiandone però irrimediabilmente corso.
La donna nota infatti dei cambiamenti nell'uomo che ama. Di gusto alimentare. Nel modo di vestire. Nel tipo di interessi e curiosità intellettuale. Nelle compagnie frequentate. Nei nuovi hobby tra i quali quello per la pittura. Di un quadro segreto, l'unico che l'uomo le nasconde alla vista il cui contenuto è carico di una premonizione...
Giulio Stasi continua a sorprendere per la capacità che ha di costruire in maniera precisa, efficace ed esemplare un percorso performativo col quale approdare a una drammaturgia diretta e spiazzante, prima sollecitando le emozioni del pubblico e poi una volta resolo aperto alle sollecitudini emotive, raccontandogli una storia dai vari risvolti narrativi dove il cambiamento di stile di vita in seguito al trapianto di cuore del perosnaggio (evocato da un altro perosnaggio) diventa la cifra di un mistero da indagare e risolvere soggettivamente: il testo è aperto infatti a varie soluzioni tutte ugualmente valide dove al determinismo causale del racconto si sostituisce un universo plurimo di possibilità sostenute dalla propria esperienza e dal riverbero emotivo che testo, musica e performance sostengono nello spettatore e nella spettatrice.
Dove l'aspetto ludico e di intrattenimento della performance si coniuga perfettamente con la domanda seria e concreta sulle sorti della nostra esistenza, sulla nostra capacità e, prima ancora, sulla possibilità, di un cambiamento, legato magari a una perdita come accenna il contenuto inquietante del quadro segreto.
Gli altri due capitoli saranno presentati nel corso delle prossime serate.
traduzione,
ideazione, regia: Giulio Stasi con: Tiziana Avariata, Elena Cucci, Jun
Ichikawa. Francesca Muller, Roberto De Paolis, Tiziano Scrocca, Giulio
Stasi supervisione tecnica: Giacomo Marchioni produzione: Rosabella
Teatro con il contributo di PF, PP, SR.