Prosa
TERRA MATTA

La Terra Matta di Pirrotta

La Terra Matta di Pirrotta
Terra Matta – regia di Vincenzo Pirrotta Teatro Biondo Stabile di Palermo, in replica dal 17 al 28 febbraio 2010 Nella cerimonia del tè giapponese, il wabi sabi definisce il momento in cui, al sommo della perfezione, fu necessario aggiungere un elemento di imperfezione che salvasse dalla decadenza: un difetto. Un bollitore arrugginito in sala da tè. Questo viene da pensare, di fronte alla maestria di Pirrotta narratore e interprete: talmente perfetto da accogliere l’imperfezione. Il lavoro si fonda su un’autobiografia particolare: il resoconto della “molto maletratata e molto travagliata e molto desprezata vita” di Vincenzo Rabito, bracciante siciliano. Vincenzo inventa, per raccontare la sua storia, un italiano “tradotto” dal siciliano: con le sue parole immaginifiche, la sua sintassi semidialettale ma tesa alla comprensibilità, percorre fatti di portata storica - lo sfruttamento del lavoro minorile nella Sicilia dei primi ‘900, la prima guerra, l’avventura del fascismo – oltre che personale. Più tardi, sarà il figlio a lavorare sullo scritto per completare lo sforzo di comunicazione del padre: il risultato di questa stratificazione è una materia linguistica che, mantenendo la corposità del dialetto e la spontaneità e la vivacità del racconto orale, acquista valore letterario grazie alla cura, alla scelta delle parole. Come nel cunto. La scena essenziale (un praticabile sul fondo definisce due zone differenziate in altezza), la semplice e pulita frontalità dell’attore, che apre seduto su una sedia in proscenio, in relazione diretta con il pubblico, danno spazio soprattutto nella prima parte all’arte riconosciuta di Pirrotta narratore. Per tutto il tempo gioca con i due livelli, di narratore e di personaggio - quest’ultimo restituito con una esistenza sulla scena complessa e fisicamente intensa: Il suo doppio status garantisce la credibilità dei fatti: per cui, quando la messinscena si apre nello spazio, diventa possibile che si sviluppi in una direzione favolistica e surreale. E lo fa con elementi mutuati dal teatro di figura: i personaggi che agiscono spesso come pupi, il telo dipinto che passa in proscenio a segnalare il passaggio del tempo, il ricorso a modi del narrare come il racconto con le dita. Ricorso che confina e talvolta sconfina simpaticamente nella citazione (quando Vincenzo, battendo il piede in terra a mo’ di cunto, dice: “L’unico libro che ho letto è la storia dei paladini di Francia”). La gestione dello spazio scenico, in qualche caso, rischia di compromettere l’equilibrio fra gli elementi: finché rimangono frontali sul praticabile, i comprimari/ pupi si avvantaggiano di una cornice, e di una bidimensionalità, che li preserva nel loro status di marionette. Quando, nella seconda parte, si appropriano anche del resto dello spazio, e acquistano tridimensionalità, venendo meno questo elemento gli interpreti sono esposti al rischio di macchiettismo. Allo stesso modo, la danza finale, che è giocata e con efficacia a un livello solo, quello inferiore, risente dello spazio scenico ristretto, e risulta meno larga e leggera di quanto potrebbe essere. In questo gioco, l’uso del cantato e la musica fanno piacevolmente la loro parte. Un esempio per tutti, i soldati che cantano “abbiamo vinto questa mincia”: la delusione del reduce viene restituita attraverso una canzoncina simpatica, e dalla sola sovrapposizione scaturisce l’ironia, senza che l’attore forzi la mano.
Visto il 21-02-2010
al Bellini di Palermo (PA)