Torino, teatro Regio, “Thaïs” di Jules Massenet
THAÏS SOLENNE E IERATICA, PIENA DI SIMBOLI
Opera oggi poco rappresentata, non solo a paragone delle più note Manon e Werther, Thaïs debutta a Parigi nel 1894 e subito si impone sul pubblico per la forza drammatica e simbolica della storia. Scrive Elvio Giudici: Thaïs è lo “specchio ideale di un’epoca – quella dell’affare Dreyfus – in cui rigurgiti conservatori si opponevano ferocemente tanto al naturalismo quanto all’estetismo che sempre più impregnava una cultura nella quale il problema della perdita del credo religioso stava assumendo posizione centrale. L’ironia di Anatole France (fonte letteraria del libretto), oltremodo corrosiva nei confronti di un ascetismo visto come ipocrita degenerazione del fanatismo, viene dalla musica disciolta in scrittura fitta di brusche cesure ritmiche, a increspare di continuo il morbido fluire di linee melodiche costituite spessissimo dall’intreccio di stili contrapposti, producendo così una sottile ma inesausta tensione”.
Il cenobita Athanaël vuole redimere Thaïs, cortigiana che tinge di lussuria la vita di Alessandria d’Egitto; conosciuta la donna a casa dell’amico (e di lei amante) Nicias, Athanaël la invita a rinunciare a quel mondo ed a convertirsi alla fede spirituale. Thaïs si lascia convincere e lo segue, trovando la pace interiore in un monastero. Non così Athanaël, ossessionato dalla passione sensuale per la donna, tanto da sognarla morente. Impaurito, accorre nel monastero, la trova davvero in fin di vita: Thaïs muore affidandosi a Dio, Athanaël perde l’anima nel desiderio carnale. Ma questo viaggio spirituale, questa doppia conversione interiore, sono poco percepibili nella musica.
La rappresentazione del Regio segna il debutto in Italia di Stefano Poda, autore di regia, scene, costumi, coreografie e luci, che interpreta Thaïs come una rappresentazione solenne e ieratica, piena di comparse impegnate in una gestualità sacra e misteriosa, oppure in transiti lentissimi e silenziosi, quasi tableaux vivent di grande impatto visivo, con un ottimo coordinamento delle masse ed un grande senso del teatro e della composizione.
Se l’opera non offre molti spunti nella storia alquanto semplice, il regista presenta una pletora di simboli, troppi. La scena fissa è un ambiente circondato da altissime mura di mattoni bianchi sfalsati che creano ombre grazie ad una sapiente illuminazione (bellissime le luci, sempre). L’utilizzo dei ponti mobili offre due luoghi, uno sopra bianco e arioso, uno sotto nero, cupo ed asfittico, il sotterraneo infernale fondamenta del mondo. La scena bianca è aperta da portoni incorniciati in modo geometrico, da quello enorme sullo sfondo si vede una sbrecciatura da cui spunta una sfera. Ovunque mucchi di mattoni e materiale edile, rovine o frammenti di costruzioni abbattute oppure non ultimate. Durante l’ouverture un uomo crocifisso viene sollevato sul boccascena, poi scende dalla croce e si unisce agli altri cenobiti, tutti con ridottissimo perizoma e facce smunte e pallide. Il simbolo della croce-redenzione iniziatica torna altre volte con la proiezione di una croce di luce sul pavimento, dove Athanaël si adagia.
L’atmosfera è sempre rarefatta, surrealista, metafisica (in senso dechirichiano), tra futuro prossimo e passato remoto, con l’ausilio dei costumi monumentali che ai cantanti quasi impediscono il movimento (non Athanaël, in giacca e pantaloni neri). Invece le comparse hanno la dominante della nudità, ampie gonne a ruota nere con campanellini e torso nudo, oppure ridotti perizomi; si contorcono a terra impastati di fango oppure reggono lunghe bandiere nere che, nel camminare, li rendono simili a nocchieri di barche inesistenti. E gli strascichi aumentano il senso della lentezza e della sacralità, fuori dal tempo e dallo spazio.
Nella scena dello specchio la protagonista non ha nulla in mano ma un enorme mosaico di particolari anatomici (orecchie, occhi, seni, glutei) improvvisamente è attraversato da crepe nere, una ragnatela che mina la bellezza e la solidità. Nel terzo atto un grande muro costituito da mani protese a chiedere aiuto, mani ferite da stigmate che grondano sangue, mani silenziose verso un aiuto che non c’è. Molto efficace la tempesta di foglie autunnali soffiate sul palco dalle quinte laterali. Nel finale Thaïs, pallida, emaciata e con profonde occhiaie, vestita di bianco spinoso, solo lo spettro della cortigiana di prima, assume la posa di una madonna orante sopra un catafalco di moduli geometrici che ricordano una pira per il rogo. Thaïs è irraggiungibile, l’atmosfera si fa pacificata, rarefatta; Athanaël è crocifisso ai suoi piedi; un raggio verde presenza ultraterrena.
Altri simboli sono più astrusi, le spade, i corpi a testa in giù insalamati nelle funi, la clessidra che lascia cadere sabbia sopra una donna incinta, il “funerale” delle scarpe di vernice rossa coi tacchi a spillo (forse segno contro la vanità, la transitorietà della seduzione).
Impeccabile la direzione musicale di Gianandrea Noseda, al debutto nella partitura, che guida l’orchestra del Regio coi giusti tempi, dosando volumi e colori, evidenziando le sonorità orientaleggianti, gli elementi esotici ed i rimandi alle flessuose sensualità floreali della musica. Il suono è denso ma leggero, giocato su linee morbide ma non languide ed il risultato una inesausta tensione.
Il coro è ben preparato da Roberto Gabbiani.
Nathalie Manfrino è una impeccabile Thaïs, bella presenza e peccaminoso décolleté, voce piena e solida, squillante nel registro alto fino ai re sovracuti dell’aria dello specchio, però non luminosi; particolarmente seducenti le “r” alla francese. Simone Alberghini è un Athanaël affascinante e dalla voce scura e duttile, corretto. Dmytro Popov è Nicias non particolarmente incisivo, debole il Palémon di Maurizio Lo Piccolo, brava la Charmeuse di Daniela Schillaci. Con loro Nadezhda Serdyuk (Albine), Eleonora Buratto e Ketevan Kemoklidze (le schiave) e Diego Matamoros (un servitore).
Diversi posti vuoti in sala. Pubblico plaudente e soddisfatto dello spettacolo.
Visto a Torino, teatro Regio,l’11 dicembre 2008
FRANCESCO RAPACCIONI
Visto il
al
Regio
di Torino
(TO)