Abbiamo preso a prestito per il nostro titolo, le parole pronunciate da Tosca nell'ultimo atto, prima della fucilazione di Cavaradossi, mendacemente simulata. Con Puccini ci troviamo in pieno verismo, che la regia di Fabio Ceresa ha guarnito di elementi non ad esso riconducibili. La gradevole linearità visiva dell'impianto scenografico (di Justin Arienti come i costumi) a gradini e colonne, è presto stata smossa da un manipolo di figure.
L'Attavanti, che i librettisti Illica e Giacosa identificano come concreta, non idealizzata, ispiratrice del ritratto scatenante la gelosia della protagonista, si è aggirata tra le Cappelle di Sant'Andrea della Valle come un lugubre fantasma velato di nero (nascosti anche i suoi "occhi cilestrini") per poi, nell'ultimo atto, essersi sostituita al Pastorello nel lamento da lei indirizzato ad Angelotti mentre stava per essere "appeso morto alle forche" (immaginarie). La processione del Te Deum, assenti prelati e porporati, si è svolta alla presenza di popolani in rustici abiti bianchi. Gli sbirri, seguendo percorsi labirintici, hanno occupato ogni spazio di ogni quadro, appollaiati come inquietanti gargoyles pronti ad aggredire la vittima mentre Scarpia è stato tratteggiato come un personaggio laido e crudele, privo di quei modi colti e raffinati derivanti dal titolo di Barone e dell'ambiguo fascino noir suggerito da Illica e Giacosa. In un (apprezzabile) contesto pompeiano, il capo della polizia è stato equiparato ad un imperatore romano (bella intuizione) senza però averne i modi. La nudità del diaframma non solo vocalmente imponente, la vestaglia (con maniche a kimono stile zio Bonzo di Butterfly) spalancata senza tanti preamboli durante il tentativo di "ghermire la preda", le abluzioni espletate in una tinozza nella quale è infine morto (affogato?) sommate, nell'atto successivo, al gettarsi dell'eroina dai bastioni di Castel Sant'angelo assieme al corpo (eretto) dell'amato esanime, hanno cagionato effetti da commedia che meglio sarebbero calzati al Falstaff verdiano anziché al dramma pucciniano. E ci si è messa pure la sorte, a far birichinate lampeggianti con un faro (non si poteva sostituirlo durante l'intervallo?). Una visione registica svolta con ingenuità; movenze e gestualità in disarmonia con le note di Puccini, nelle quali viceversa tutto è scritto, tutto è scandito.
Cellia Costea presenta una emissione "chiusa", "indietro", tecnicamente non proiettata e la dizione da affinare; la voce potente ben si è adattata al carattere umorale di Floria Tosca. Lorenzo Decaro ha una timbrica piacevole benché esile nei volumi: troppo spesso è risultato sovrastato dai pieni orchestrali (che in Puccini devono esserci); leggermente ingolato nei registri alti, le smorzature pur assottigliatesi nello spessore hanno decretato una linea di canto motivata da discreta sensibilità interpretativa, solo disturbata dagli acuti inusitatamente protratti ai limiti della tenuta. Mario Cavaradossi appannato, sia come innamorato che come patriota. Ivan Inverardi trova il proprio punto di forza nella musicalità solida dai colori arrotondati. La dimestichezza con i propri mezzi e con la partitura ne hanno fatto l'elemento migliore del cast. Peccato la discrepanza tra la recitazione imposta dalla regia al suo Scarpia, e il bello stile interpretativo nel canto. Daniele Cusari ha delineato un Cesare Angelotti stanco, vinto, arreso. Molto bene il Sagrestano di Davide Pelissero, dall'indole timorosa e succube. Inoltre Saverio Pugliese, servile e correttamente viscido Spoletta ed i puntuali Massimiliano Galli, Sciarrone, Radu Pintilie, Carceriere e Alessandra Ferrari, la succitata Attavanti/Pastorello. Qualche scollatura nel Coro Schola Cantorum San Gregorio Magno diretto da Mauro Rolfi.
A dirigere l'Orchestra Filarmonica del Piemonte, non sempre perfettamente coesa, Valerio Galli che, con gesto elegante, ha declinato l'attenta cura per le preziosità della partitura in tempi larghi, sfumati sia nella temperamentosità che nelle aperture melodiche che hanno faticato a raggiungere l'ariosa luminosità propria del dettato pucciniano. A lui ed al soprano, sono andati i maggiori applausi del Coccia, esaurito in ogni ordine di posti, comunque caloroso con tutti gli interpreti.